Il problema è il concetto stesso di nazione

Scrive Karima Moual in un appassionato corsivo sulla Stampa di lunedì scorso: «tra tutte le urla contro Paola c’è un titolo che più di tutti racconta una sfida persa dall’Italia ma anche da noi seconda generazione che abbiamo in questi anni creduto di potercela fare. È quello di Libero (di venerdì 10 febbraio, N.d.R.): “Noi le diamo la maglia azzurra, la Egonu ci dà dei razzisti”. In questa frase c’è tutto il fallimento del significato della parola integrazione che è un percorso da fare in due. Lo straniero e la comunità che lo accoglie. È una frase così razzista, paternalista e classista che servirebbe maggior spazio per scardinarla. […] La verità che dobbiamo dirci è che oggi l’Italia non è ancora pronta ad accogliere la mia italianità, come quella di tanti altri cittadini che continuano a essere percepiti e raccontati come immigrati per sempre. La nostra storia di crescita e integrazione è un affronto troppo alto ed è per questo che quando denunciamo da dentro il razzismo o facciamo critiche appassionate sul futuro di quello che consideriamo il nostro Paese, ci guardano come marziani o addirittura ingrati. Il concetto di “ingratitudine” è quello che maggiormente viene utilizzato per attaccare chi, figlio di immigrati, osa farsi avanti con una critica, quale che sia. Sembra che la condizione di cittadino immigrato o figlio di immigrato (con cittadinanza italiana) debba escludere qualsiasi critica, denuncia o lamento, perché “è già tanto che l’Italia ci ha accolti”. Ora, se non è razzismo questo, che cosa è?».

Esatto: se non è razzismo, cos’è? L’idea che alcuni siano più italiani di altri, solo perché rispondono a precisi requisiti fisici, culturali e di origine, è razzista. Io sono italiano come Paola Egonu, come Karima Moual, come Ermal Meta, come Mario Ballotelli, come Degnand Wilfried Gnonto, come Teresa Lin, come Marco Wong, e come i tanti cittadini italiani con storie personali e familiari diverse dalla mia che in Italia nascono e vivono, e con cui condivido la parola “nazionalità”. Altrimenti, quell’altra parola, “cittadinanza”, non ha più significato. Scrivere, come ha fatto Libero nel titolo sopra citato a proposito di Paola Egonu, «Noi le diamo la maglia azzurra», significa che c’è un «noi» che precede lei per diritti e potestà, e che le conferisce un qualcosa che è sempre sotto giudizio di quello stesso «noi», di cui lei, in fin dei conti, non potrà mai farne totalmente parte. Semplicemente perché, per qualche caratteristica sua o dei suoi avi, sarà “diversa”. Questo è razzismo: vedere quali pieni titolari del diritto di nazionalità solo gli appartenenti a un gruppo razzialmente omogeneo, e scorgere negli altri motivi per considerarli cittadini in minore. E sì, hanno ragione Karima Moual e Paola Egonu, quando spiegano che in Italia il razzismo c’è e non è un fenomeno marginale, pur se non tutti gli italiani possono essere definiti razzisti. Ma capisco i milioni di “filippi facci” che si stupiscono, e un po’ s’offendono, per quelle parole: in Italia, puoi vivere una vita intera senza accorgerti di quanto sia razzista. Se sei bianco, ricco e del Nord.

Già, perché me lo hanno spiegato sempre i titoli di Libero e giornali sodali, e me lo hanno insegnato, fin da bambino, gli inni alla lava del Vesuvio e dell’Etna che si leggevano sui pilastri dei cavalcavia padani, il tifo per i terremoti urlato negli stadi contro i meridionali, i cartelli visti da mia madre ai piedi degli stabili, in cui si specificava bene a chi, in quelle case, non si sarebbe mai affittato: io, per questi, sono terrone. Una forma solo quantitativamente diversa della loro discriminazione (e fa ancora più male vedere simile discriminazione perpetuata oggi su quelli arrivati dopo, da chi ieri ne è stato vittima).         

Ed è infine anche per questo che comprendo il senso di sfiducia e quasi resa che passa nelle parole finali dell’articolo di Karima Moual con cui ho iniziato. Oltre queste, però, individuo nel concetto stesso di nazione – di cui la nazionalità è solo conseguenza istituzionale e il nazionalismo il suo peggiore e malsano frutto – l’errore e il problema di fondo di molto di quello che vediamo accaderci intorno.  

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