Chi è il mio straniero?

Ho sentito l’altro giorno, al tg regionale, la leader di un partito di destra, intervenuta a un comizio, dire di temere che i negozi locali finiscano in mano a stranieri approfittatori della crisi dovuta alle chiusure forzate dei mesi passati (con un passaggio sui cinesi degno del mito americano a cui la stessa più volte ha guardato e potenzialmente foriero di stimoli a una sinofobia e un asian hate dei quali non si sente davvero il bisogno).

Al netto dell’illogicità pratica di quelle affermazioni (avrebbe, stando alla ratio di queste, la Cina scatenato una pandemia che le è costata una decina di punti di PIL per penalizzare il commercio locale a vantaggio dei colossi Usa dell’e-commerce per far sì che un cittadino italiano nato nello Zhejiang meridionale potesse acquistare il locale di un barbiere chiuso per crisi in zona Vanchiglia? A me sembra arduo pensarlo), e della loro pericolosità (cosa succede se quella stessa persona, da qualche buzzurro, viene aggredita e pestata perché considerata una sorta di usurpatore? Non dovremmo, in quel caso, utilizzare la categoria del “mandante morale”?), è proprio il senso letterale che non mi convince: chi sarebbe, lì, lo straniero? Il prossimo negoziante di quartiere? E perché, per le sue origini? E perché, di contro, chi questa tesi propaga dovrebbe essere il mio “fratello di patria”? Per la nazione in cui è nato? Non è forse più estraneo, straniero, appunto, chi vive in contesti diversi di colui che, invece, condivide tutti i giorni i medesimi orizzonti, fisici e sociali? Detta diversamente: al lavoratore italiano, non è più connazionale il lavoratore cinese, nigeriano, pachistano, che, come lui, tutte le mattine si alza e si reca a lavoro, cresce i propri figli nelle stesse sue strade, si sacrifica e gioisce nel vederli diventar grandi, sperando possano domani anche loro averne di propri, di quanto non lo sia il ricco padrone o i megafoni dei suoi interessi mandati a raccontargli da un palco la storia al contrario, e per questo pagati al mese quanto lui, difficilmente, vede in un anno? Ecco, precisamente: chi è il mio straniero?

Come insegnava Don Milani (Ai cappellani militari toscani che hanno sottoscritto il comunicato dell’11 febbraio 1965 [contro l’obiezione di coscienza, nda], ora in Don Lorenzo Milani, L’obbedienza non è più una virtù e altri scritti politici, Stampa Alternativa, 1998, pp. 25-26) se voi «avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro; gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri». Ancor prima, e probabilmente meno, non capisco il senso di dire “straniero” il proprio pari e vicino, considerando “connazionale” chi vive in un mondo e in un modo diversi irraggiungibili.

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