Al netto di Brunetta, ma, prima o poi, non era meglio che finisse?

D’accordo, è un’idea di Brunetta, e, a prescindere, è sbagliata. Però, qualche dubbio, sullo smart working, io l’ho sempre avuto. Da prima che Brunetta diventasse ministro della P.A. nel governo Draghi. E al netto delle osservazioni sul fatto che i dipendenti in ufficio facciano circolare l’economia e quindi anche gli incassi di bar e ristoranti nei quartieri dove questi insistono (ed è un fatto che non può essere derubricato a sedimento di cultura “sviluppista”, perché la questione rimane, e non si è più green e cool se si contesta quel principio, ordinando comodamente da casa sulle app del lavoro sfruttato), il ritorno alla normalità, anche il quel senso, è un segnale da dare e una strada da perseguire.

Vale in questo caso per la Pubblica amministrazione, ma vale in generale per il mondo del lavoro. Quando sento gli entusiasmi per la possibilità di rendere “da remoto” la propria prestazione lavorativa, un po’ m’insospettisco. Ancora di più quando, in questo giubilo, avverto una sorta di acquiescenza verso tale possibile nuova normalità del “prestare la propria opera a fronte di un compenso”, che, almeno nei servizi e negli impieghi – descrizione desueta, lo so – “di concetto”, potrebbe in un futuro più o meno prossimo darsi. Chiariamo: lo smart working per esigenze puntuali e circostanziate, al di là delle ragioni autoevidenti dovute alla pandemia, Dio lo benedica; lo sottolineo io, che non avrei saputo come fare altrimenti, con un figlio piccolo e quando le scuole sono state chiuse. Sul lavoro agile come guisa della normalità lavorativa, beh, permettetemi la pratica del sospetto. Cos’è, di fatto, quel modo di lavorare? Produrre senza incontrare i propri colleghi quasi mai, di certo non in quei momenti di pausa dal lavoro in cui, fra l’altro, nasce il confronto sulla propria condizione e, magari, le considerazioni per una rivendicazione o un’azione collettiva, foss’anche la semplice richiesta di una migliore organizzazione. Alla fine, verrebbe così fortemente indebolita, nei settori maggiormente coinvolti, la possibilità stessa della nascita e dell’organizzazione di un’attività sindacale, che dalla radice “insieme” mutua il suo stesso nome; ognuno a casa sua, e quella possibilità è di fatto preclusa.

Il sindacato stesso, infatti, e le rivendicazioni in questo discusse, fatte proprie e rivendicate, nacquero e nascono ancora pure in quelle pause trascorse insieme dai lavoratori, fra un cambio turno in fabbrica, durante il veloce pasto sui campi, nello scambio di battute alla macchinetta del caffè in ufficio; togliendo quei momenti, rendiamo un po’ più ardua la sua costruzione e il suo mantenimento in vita.

Praticando, infine, l’estrema solitudine del non aver compagni.

Questa voce è stata pubblicata in economia - articoli, libertà di espressione, società e contrassegnata con , , , . Contrassegna il permalink.