Dove comincia, la libertà?

Nei giorni scorsi, ho letto lo scambio di articoli e commenti sul Corriere tra Antonio Scurati e i medici e i ricercatori che hanno risposto alle sue dichiarazioni contrarie al divieto di fumo all’aperto, anche quando questo comportamento non avesse danneggiato e infastidito nessuno. La tesi dello scrittore, ben spiegata nel suo ultimo articolo a riguardo, era in sintesi quella per cui, considerata e avendo piena coscienza della dannosità di una scelta, il singolo può sempre rivendicare la voglia di metterla in pratica, quando ciò non danneggi altri.

L’esempio e il punto da cui partiva quel confronto era il fumo di sigarette, ma può proseguire in ambiti differenti, e ciascuno potrà facilmente trovarne degli altri e diversi. Il fatto era la possibilità del singolo di affermare e mettere in pratica un atto sovranamente libero, e decidere sul proprio destino, persino nella forma di un intossicamento da catrame e nicotina. Allargando e portando a conclusione il ragionamento, Scurati scrive: «La mia libertà finisce dove inizia quella altrui. Sono pienamente d’accordo. Anche questo, oggi, per fortuna, lo sanno pure i bambini. Proprio oggi, però, in queste nostre vite sempre più avviluppate in una rete di proibizioni, prescrizioni, obblighi, vincoli e profilassi che ci stringono da ogni lato, il vero tema non è dove finisca la libertà, ma dove cominci». Precisamente: dove comincia?

Facendomi quella domanda, casualmente mi sono imbattuto nelle parole di Bernard-Henri Lévy: «Per tutta la vita ho lottato contro la trappola della religiosità laica. Ho sostenuto, fin dai miei inizi, ai tempi de La barbarie dal volto umano e della mia prima lettura di Lacan, che dare un senso a ciò che non ne ha e far parlare quel fuori-senso che è l’indicibile sofferenza degli uomini è una delle fonti, nel migliore dei casi, della psicosi, nel peggiore dei casi del totalitarismo. E ho sempre pensato che non fa bene a nessuno ridurre la politica alla clinica e considerare alla stregua di malattie questo residuo della vita dell’uomo che sono la morte e il male, e pretendere di curare l’umanità da queste malattie» (in B.-H. Lévy, Il virus che rende folli, ed. La nave di Teseo, 2020, trad. it. A.M. Lorusso, pag. 50).

Tentare di curare gli uomini da quelli che non sono mali, ma confini e dimensioni propri del suo essere al mondo, rischia davvero di diventare una forma di totalitarismo, se non si pone, appunto, un limite a quell’idea. E vale per il singolo, convintosi sulla base del senso comune dell’onnipotenza della scienza e della tecnica, e vale per il mondo degli uomini, sicuro di poter determinare, per effetto delle prassi e delle regole definite e impartite, la salute assoluta, pubblica e privata.

Così, la libertà dell’individuo trema: non si sa dove cominci, ma si legge ovunque dove finisca.

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