Per questo, finché sarà notizia d’apertura, non ne scriverò più

Non mi capita spesso, ma sabato scorso mi sono ritrovato d’accordo con quanto scritto da Gramellini nel suo quotidiano Caffè sul Corriere. Totalmente d’accordo. Riporto qui, quasi per intero, la sua nota: «Federica Pellegrini non riesce a capacitarsi […], Mariastella Gelmini giura di essere stata “superattenta”, Valentino Rossi ci tiene a far sapere di avere fatto del suo meglio per rispettare le precauzioni. Non si era mai visto un paziente giustificarsi e chiedere quasi scusa per essersi ammalato, ma il Covid non è una malattia come le altre. Lo abbiamo raccontato come un giudizio divino […]. Il malato teme di passare per traditore e per potenziale untore […]. I vip della politica e dello spettacolo hanno paura di apparire disattenti e strafottenti, gli sportivi si sentono offesi in quella che è la loro attrezzatura di lavoro, il corpo. Ma su tutti, famosi e non, sportivi e non, aleggia la sensazione di una punizione divina e di un giudizio sociale che non hanno ragione di esistere, se non nelle ossessioni dei terrorizzati, che ai miei occhi hanno la stessa credibilità dei loro contraltari negazionisti. Il Covid non è la peste né un castigo biblico, ma un virus molto contagioso da cui dobbiamo proteggerci meglio che si può e per quanto si può. Sapendo, però, che risultare positivi al tampone non solo non è una sentenza di morte. Non è nemmeno una nota di biasimo».

Ha ragione Gramellini: le parole e gli allarmi degli ipocondriaci hanno non di rado lo stesso fondamento delle sottovalutazioni di chi nega; è un virus, e pertanto non segue valutazioni morali nella sua diffusione; soprattutto, contrarlo non può essere causa di disapprovazione sociale. Gli effetti perversi di questa infinita stagione di Tutto il contagio, minuto per minuto sono da ricercarsi pure in quello che scrive a proposito dell’approccio avuto dai citati protagonisti della disavventura e da tutti gli altri, che han paura del tampone ancor prima che della malattia, perché gli effetti pratici di un risultato di conferma del dubbio sanitario sono pesanti, e non solamente sotto il profilo clinico, e per lo stigma che sentono arrivare. Per parlare solo di esperienze dirette e recenti, negli ultimi due giorni, notizie di contagi o presunti tali mi hanno raggiunto attraverso le solite catene social, con tanto di specifiche su nomi, date e circostanze, con buona pace della tutela della privacy, del rispetto di deontologie professionali e della considerazione per lo stato dell’interessato. Tutto scordato, tutto cancellato, tutto in secondo piano, sull’onda emozionale che un’incredibile abbondanza di notizie, dati, statistiche, strilli di governanti alla ricerca di notorietà in forma di “mi piace”, censure eticamente definite dai commentatori televisivi e giornalistici, dirette, isterie in forma di trasmissione del pomeriggio, reporter lanciati per mesi alla ricerca dell’ultimo contatto del primo contagiato, conduttori in studio paternalisticamente stigmatizzanti verso i comportamenti raccontati e dal loro stesso racconto amplificati, esperti, ricercatori e scienziati che, a dispetto dei tempi lunghi del lavoro sulle loro discipline, sedotti dalle moine del minutaggio dettato dalla bulimia d’una società sempre a caccia del sensazionale, cadono in contraddizione lungo le ragioni dell’immediato. Troppo.

Per questi motivi, e per non aggiungere ancora del superfluo al già eccessivo, su questo spazio non scriverò più nulla a riguardo, fino a quando le notizie sulla malattia e la sua diffusione non smetteranno di essere l’apertura a testate unificate di tutto il sistema dell’informazione. Nessuna sottovalutazione, né, tantomeno, negazione; semplicemente la presa d’atto di una situazione comunicativa e informativa ormai da mesi sfuggita di mano e la volontà di non voler, almeno non più e non ora, contribuire direttamente o indirettamente ad alimentarla e sospingerla, foss’anche con le migliori intenzioni e per gli strani e imprevedibili percorsi dell’eterogenesi dei fini, verso quei lidi e quegli approdi che si contestano.

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