Recensendo per l’edizione di giovedì scorso del Corriere della Sera l’interessante saggio di Edoardo Campanella e Marta Dassù L’età della nostalgia. L’emozione che divide l’Occidente (recentemente tradotto e pubblicato in Italia da Egea – Bocconi Editore), Antonio Polito, in conclusione, scrive: «Le opinioni pubbliche sembrano ormai spaccate quasi ovunque lungo questa linea divisoria: da un lato i somewheres, gente radicata in un luogo e legata a un lavoro, spesso meno istruita; e dall’altro gli anywheres, persone più indipendenti, urbanizzate, socialmente liberali. Il loro conflitto si gioca proprio sul richiamo, maggiore o minore, della nostalgia. E da esso può dipendere la sorte della democrazia rappresentativa nel XXI secolo».
Potrei aggiungere alle parole del giornalista che quella spaccatura c’è da ben prima dell’oggi globalizzato, e quanto risuoni in essa l’eco delle note per la suddivisone del mondo fra chi viveva nella e della modernità tecnica e chi a questa si opponeva, composte nella solitudine di una baita a Todtnauberg, ma è più interessante, adesso, fermarmi qui, a vedere quello che succede ora. Quella suddivisione esiste. E non si può agevolmente superarla spiegando come, in fondo, sia solo un effetto della resistenza di fasce di popolazione che faticano ad avvertire un mondo più grande come un’opportunità. Non è che questi non vogliano farlo per paura di mettersi in competizione; è perché sanno che non ce la farebbero a nuotare in un mare tanto vasto e rivogliono il lago placido, noto e limitato che avevano prima (o che gli hanno raccontato esistesse, ma poco cambia, per quel punto di vista). A tutti loro, cosa raccontiamo?
Finora, la narrazione è stata fatta giocando sui temi dell’opportunità di un mondo allargato, di confini sempre più labili, di possibilità che si moltiplicavano per il solo fatto di essere disponibili semplicemente andandosele a prendere. Ma in fondo di cosa stavamo parlando? Delle opportunità offerta a chi sa, può e vuole andarsele a prendere, interfacciandosi con altre persone che sanno cose diverse e parlano lingue differenti, spendendo, con profitto e senza paura, la propria knowledge su cui si fonda o può essere fondata un’economia intera. E va bene. Però poi ci sono tutti gli altri, quelli che non hanno cultura da mettere a profitto, che non sanno le lingue, che si sentono straniati e stranieri appena ai confini della propria provincia; di loro, parliamo?
Certo, si possono scuotere le spalle convinti che quelle opportunità sono offerte a tutti indistintamente e se qualcuno non riesce a cogliere, beh, problemi suoi: è la vita, bellezza. Ma è miope dirlo. Perché pure quelli esistono e pure a loro va offerta una narrazione comprensibile, da parte di quanti intendono, per quanto correggendone le storture, continuare a far vivere un’idea di mondo in cui non si stia, e non si debba stare, tutti chiusi nei limiti angusti di patrie troppo piccole per le speranze, i sogni e i desideri di una specie, quella umana, che ha le gambe, non le radici. Poi, però, un dubbio mi assale, e parte della mia spiegazione vacilla: è davvero tutta e sola misurabile con la conoscenza, posseduta e mancante, la distanza fra quelle due visioni? I miei avi ne avevano poca, eppure, giravano il mondo e, non di rado, scoprivano casa e patria di più Oltreatlantico che dov’erano nati. «Io sono un filo d’erba/ un filo d’erba che trema./ E la mia Patria è dove l’erba trema./ Un alito può trapiantare/ Il mio seme lontano» (Rocco Scotellaro, La mia bella patria [1949], da È fatto giorno, Parte seconda 1949-1952, La casa, ora in Tutte le poesie 1940-1953, Mondadori, 2004, p. 114).