I rischi di guardare dall’alto

Mi è capitato spesso, in questi anni, di parlare con gente che per la prima volta aveva visitato Matera nel momento della sua massima notorietà. Mi fan piacere i commenti entusiasti, mi spingono a riflettere i tanti giudizi critici sul repentino abbandono degli antichi rioni negli anni ’50. Non perché non ci siano state falle all’epoca, ma perché spesso i giudizi dell’oggi paiono non tener conto della realtà dell’allora. E per guardare a quella, provando a vincere la tentazione in me sempre forte di citare Levi (alle cui pagine sui Sassi comunque da qui rimando), voglio tentare col taglio decisamente più scarno della cronaca, riportata circa vent’anni dopo le parole dell’esule torinese.

Domenico Rea, scrittore e giornalista napoletano, in un articolo sul Corriere della Sera del 2 marzo 1957, ricordando una sua precedente visita a Matera nel ’52, raccontava: «Stavo appunto visitando una misera stanza dove vivevano in dodici persone quando fui afferrato da una vecchia che disse: “La casa della comare è una reggia in confronto alla mia. Di che si lamenta? Ha dieci figli, dieci lupi che la proteggono. Venite a vedere la mia”. Dovetti seguirla e giunto alla sua casa mi fece entrare in una grotta a forma di parallelepipedo, che il tetto non si scorgeva e finiva in un buio indefinito. Poteva essere lunga tre metri, larga, forse, due, alta, dico a caso, per darvi un’idea, trenta metri. C’era dentro la figlia, seduta. Un bambino come un verme le stava ai piedi. Un altro, in grembo. Quello ai suoi piedi aveva un gestire e i lenti movimenti di un bruco ancora spoglio, come i vermicini che escono dai frutti marci. L’altro giocava con la mammella avvizzita della madre. E quella donna aveva vent’anni, non quaranta come io avevo stimato dalla prima occhiata. Aveva la faccia di una castagna secca e le due orecchie erano due bucce pendule. Guardava incantata me e la madre». E in conclusione, parlando di quello che erano e come erano stati costruiti i nuovi quartieri popolari di “La Martella” e “Serra Venerdì”: «Errori, sbagli e persino ingiustizie saranno stati commessi, perché il furore politico vela la mente di tutti coloro che sono in lotta, di questo e di quel campo, ma non si può negare che a Matera i Sassi non esistono più come mostruosità umana e sociale. E quest’opera è stata compiuta da noi tutti, liberando l’Italia da una grossa vergogna».

Perché lo era davvero, una vergogna, fatta di luoghi insalubri, bambini malati, donne e uomini allo stremo. Alla vigilia, ancora, del “miracolo economico” e nel pieno della ricostruzione e dell’ammodernamento del Paese. Ho memoria di un’intervista fatta insieme ad altri a pochi chilometri da Matera. A una collega che chiedeva a un anziano di Craco, ormai Peschiera, se non fosse stato un peccato abbandonare le case del borgo antico, egli rispose, senza titubare un attimo: «e vai a viverci tu». Lui aveva ragione. Il nostro avvertire l’errore nell’abbandono regge soprattutto sul non aver patito le difficoltà dei luoghi abbandonati. Di cosa parliamo, quando riempiamo di nostalgia il nostro dire per ricordi mai vissuti? Eravamo noi i bambini che chiedevano il chinino? Noi i figli di Africo, nel ’48 per L’Europeo fotografati da Tino Petrelli e raccontati da Tommaso Besozzi? Ecco perché credo che non cogliamo il senso profondo di quel che accadde allora e dopo: perché guardiamo troppo da lontano, troppo dall’alto. Cosa che, in fondo, facciamo anche sulle tradizioni e su ciò che, non senza ragioni, ma spesso inutilmente forzando la retorica, chiamiamo “patrimonio culturale”.

Uso per chiudere le parole che, nel 1958, Ernesto de Martino poneva in fine alla Prefazione della sua monografia sulla ritualità del pianto funebre nella tradizione del Meridione italiano, e in quella lucana in particolare (E. de Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento funebre al pianto di Maria, I ed. 1958, Bollati Boringhieri, 2000, p. 5): «Per queste povere donne che vivono negli squallidi villaggi disseminati tra il Bradàno e il Sinni, non sapremmo disgiungere il nostro ringraziamento dal caloroso augurio che, se non esse, almeno le loro figlie o le loro nipoti perdano il nefasto privilegio di essere ancora in qualche cosa un documento per gli storici della vita religiosa del mondo antico, e si elevino a quella più alta disciplina del pianto che forma parte non del tutto irrilevante della emancipazione economica, sociale, politica e culturale del nostro Mezzogiorno».

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