Non è andata per tutti bene

Belli davvero, pur nella loro drammaticità, i giorni con l’appuntamento alle sei del pomeriggio sul balcone, gli arcobaleni disegnati dai bambini alle ringhiere con su scritto andrà tutto bene (e che a me piacevano e piacciono molto di più delle bandiere nazionali, che sempre mi fan tristezza per la loro parzialità), il sentimento di fiducia nei momenti più neri, delle ambulanze e dei bollettini della Protezione civile, diramati in diretta in quello stesso orario in cui, forse pure per non sentirli più, si usciva in terrazzo a cantare.   

La pandemia è ancora in corso, il virus non è sparito e non è andata bene per tutti. Al di là della ritualità costruita per sfuggire la «crisi della presenza» che ci attanagliava a seguito della perdita delle certezze e delle abitudini, rimangono sul campo le cicatrici. Quelle di chi dalla malattia è stato colpito e finito, quelle dei suoi cari, quelle di chi ha lottato e lotta ancora per arginarla, certo. Ma pure quelle di chi sta pagando, e intendo dire proprio in solido, la riorganizzazione del mondo che si è determinata e si sta determinando. Perché è bello difendere lo smart working, con quel suo nome così cool e un’idea che rimanda a professioni digitalizzate e digitalizzabili, fatte grazie alla disponibilità e all’uso delle sofisticate tecnologie di comunicazione, già. Però, di contro, ci sono i bar e i ristoranti che in quegli impiegati avevano la loro clientela e che sono ora in sofferenza per il venirne meno, i centri delle città che rimangono vuoti, come i loro negozi, i valori immobiliari che crollano, le transazioni che si riducono. Ci sono i dipendenti di quegli esercizi commerciali e di quelle agenzie di servizio, spesso con contratti a tempo che difficilmente saranno rinnovati alla scadenza, se il giro economico dei propri datori di lavoro si riduce. E allora, non è più tanto attraente, a guardarla di là, la nuova organizzazione del lavoro dei colletti bianchi.

Vale anche per la didattica a distanza, che, volendo ignorarne i limiti educativi, ha pure tolto a quegli esercizi economici gli insegnanti e gli studenti per diversi mesi, settimane oltre la fine del lockdown e la loro riapertura. Leggevo qualche giorno fa un interessante articolo di Enrico Verga per Econopoly, blog ospitato sulle pagine del Sole 24 Ore, a proposito della congiuntura economica e occupazionale negativa che si starebbe preparando per il prossimo autunno, a partire dagli Usa e direttamente discendente dalla crisi dei consumi che, con il “tutti a casa” disposto per fronteggiare l’epidemia, necessariamente doveva prodursi, e mi chiedevo: quanto larghe sono le nostre spalle?

No, non sto dicendo che è stato sbagliato disporre le restrizioni attuate, né che da adesso dobbiamo fare come se nulla fosse e fosse stato. Però, chiedersi anche chi produrrà il denaro che è venuto a mancare e che ancora, quotidianamente, viene a mancare, per pagare le tasse necessarie a sostenere il lodevole sforzo sanitario messo in campo, per adeguare la scuola alle necessità di cui c’è sempre più bisogno, per far girare un sistema che si vorrebbe, e qualcuno già pensa a come costruirlo, parzialmente o addirittura totalmente in telelavoro, sarebbe quantomeno opportuno e, azzarderei, ormai urgente.

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