Di quell’infanzia parlavo

Al mio post del 17 giugno, ricevo un messaggio di critica piccata, con tanto di link a un articolo di qualche anno fa in cui si diceva quanto, anche nel caso degli Usa, a distruggere l’economia, sperperare le risorse della nazione e lasciare una situazione difficile per le generazioni successive, fossero stati i nati fra il ’45 e il ’64, mentre la mia fosse solo trita retorica da «boomer» pronto a dare del “bamboccione” a chiunque sia arrivato più tardi al mondo e abbia avuto meno possibilità di lui. Ora, a parte che sono nato ben dopo la “congiuntura” e anche persino dello “shock petrolifero”, altro che boom, io non intendevo affatto dare dell’infantile viziato a qualcuno, men che meno a chi, da anni, si barcamena per far quadrare i propri conti. Dicevo solamente che, quell’accusa di aver egoisticamente mangiato tutto, per riprendere le parole del film da cui partivo, lanciata dalla mia generazione alle precedenti, è alquanto ingenerosa, visto che, essendo di quelli i figli, se hanno mangiato, noi eravamo a tavola con loro.

Poi, però, ho fatto un’ulteriore riflessione. Se alcuni della mia generazione la pensano più come la Cortellesi nella pellicola che come me, non è tanto e solo per storia, ma pure, se non particolarmente, per geografia. Mi ha aiutato in questo il messaggio di un amico, nato grosso modo quando sono nato io, e che ricordava sua «nonna vedova, con figlia piccola, che fatica a trovare casa a Milano, perche “non affittiamo ai terroni”», chiedendosi infine: «ha vissuto così bene mia madre?». Già, e c’è di più. C’è quello che scriveva Domenico Rea in un articolo sul Corriere della Sera del 2 marzo 1957 (ripreso nel numero di venerdì corso nella meritoria rubrica d’archivio del magazine 7 della testata milanese). Ricordando una sua precedente visita a Matera, nel ’52, lo scrittore e giornalista napoletano raccontava: «Stavo appunto visitando una misera stanza dove vivevano in dodici persone quando fui afferrato da una vecchia che disse: “La casa della comare è una reggia in confronto alla mia. Di che si lamenta? Ha dieci figli, dieci lupi che la proteggono. Venite a vedere la mia”. Dovetti seguirla e giunto alla sua casa mi fece entrare in una grotta a forma di parallelepipedo, che il tetto non si scorgeva e finiva in un buio indefinito. Poteva essere lunga tre metri, larga, forse, due, alta, dico a caso, per darvi un’idea, trenta metri. C’era dentro la figlia, seduta. Un bambino come un verme le stava ai piedi. Un altro, in grembo. Quello ai suoi piedi aveva un gestire e i lenti movimenti di un bruco ancora spoglio, come i vermicini che escono dai frutti marci. L’altro giocava con la mammella avvizzita della madre. E quella donna aveva vent’anni, non quaranta come io avevo stimato dalla prima occhiata. Aveva la faccia di una castagna secca e le due orecchie erano due bucce pendule. Guardava incantata me e la madre». 1952; figli del boom anche quei bambini.

Figli del boom i pargoli dagli emigranti in Svizzera, nascosti in casa senza poter mai uscire e costretti al silenzio, o separati per mesi dai genitori, perché le autorità elvetiche non volevano i bambini dei lavoratori italiani per non dover un giorno fare i conti con eventuali richieste di cittadinanza. Figli del boom i tanti bimbi calabresi, siciliani o napoletani che vedevano il disprezzo negli occhi dei genitori dei loro coetanei e persino in quelli dei loro insegnanti, mentre con le loro famiglie condividevano spazi bui e umidi di scantinati e soffitte nelle metropoli del nord Italia che si aprivano alla modernità. Figli del boom quelli che andavano a far la spesa con il libretto dei debiti, che non avevano il bagno in casa e l’acqua corrente, figuriamoci quella calda, che portavano vestiti sempre troppo leggeri, scarpe mai adeguate, che mangiavano poco e ogni volta lo stesso pane e quasi nulla più, e che sento vivere ancora nei ricordi dei miei genitori e dei loro amici.

È a quell’infanzia che pensavo, quando scrivevo di non esser «per nulla convinto che la vita delle generazioni che hanno preceduto la mia sia stata davvero così tanto più confortevole della nostra», soprattutto quando una simile tesi non fa i conti con le differenze che all’interno di un Paese o, ancor di più, fra le persone nate in uno stesso periodo, possono esserci, e sapendo cosa è stato esser bambini, per i nati dove sono nato io un trentennio prima.

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