«In guerra non c’è tempo per discutere, bisogna agire. Serrare le file, lasciare da parte le divergenze e combattere uniti. Per il resto ci sarà tempo dopo. Che siamo in guerra ci è stato ripetuto infinite volte in questi mesi così impegnativi. In Italia, in Europa, nel mondo tutti i più importanti leader politici sono ricorsi a questo linguaggio per giustificare decisioni e provvedimenti. Poi la guerra finisce e si torna a costruire. E oggi? È finita la guerra, va avanti? Cosa dobbiamo fare allora, uscire, stare in casa, cosa?».
Così Mauro Bonazzi, in un suo corsivo per l’edizione del Corriere della Sera di ieri, martedì 26 maggio. Trattati come bambini, ci vede il professore di Storia della Filosofia antica. E ha ragione. Stai a casa, copriti bene e lavati le mani; e basta? Cos’altro è questo, se non quanto si dice a un bambino? A un adulto si dovrebbe spiegare quali siano i suoi doveri e quali i suoi diritti; cioè, cosa si pretenda da lui, cosa possa aspettarsi dagli altri. Vi sembra essere questo il caso? A me no, e mi dispiace. Più che uno slogan, #stateacasa sta diventando un alibi. E la spasmodica denuncia dei comportamenti individuali che metterebbero a rischio la salute pubblica, ha sempre più i tratti della ricerca di un capro da allontanare e affidare al deserto per l’espiazione delle colpe collettive.
Per miei limiti, di Bonazzi ho letto solo Atene, la città inquieta (Einaudi, 2017), fortunatamente per me, quel buon saggio fa al caso di cui voglio parlare qui. Della Grecia antica, ci dice in quel libro l’autore dell’articolo che ho citato all’inizio, sulla scorta di una lunga teoria di studio che va da Platone a Nietzsche, non esiste un solo, unico e unitario volto; c’è quello dei filosofi, che cercano la razionalità del mondo e della società, e quello della tradizione, di Omero, del teatro, della tragedia, soprattutto, con la visione della realtà nella sua natura ambigua, che poco spazio lascia a chi cerca, nel manifestarsi di questa, indicazioni sul cosa sia giusto fare o pretende di trarre da ciò regole di comportamento assolutamente valide.
Ecco, allora, che quel messaggio iniziale si rivolge a tutti noi, singolarmente intesi e come comunità. Perché è nella coscienza di quella duplice faccia del problema del tempo che si vive e del come a esso ci si approccia, cercandone la razionalità ben consci delle ambiguità esistenti, che si manifesta, per esemplificare con la metafora della crescita usata dallo storico della filosofia, il diventare adulti, così come nel rifiuto di quella complessità risiede la ricerca di quel senso di sicurezza che sempre danno le immagini conosciute, smussate e proiettate sul fondo di una caverna da cui non usciamo per evitare la fatica di doverle verificare.
Ovviamente, solo una delle due ipotesi conviene al governante che non sa (o non vuole, poco importa e non fa differenza) spiegare le risposte che sa dare alle domande e ai problemi che il mondo pone davanti, e spinge perché gli uomini rimangano bambini, impauriti da quello che c’è fuori, spaventati da racconti terribili di dimensioni senza sfumature, in cui i buoni lottano sempre e solo conto il male e rassicurati dal sapere che questo, alla fine e se ci si comporta bene, magicamente è sempre sconfitto.
È così ovunque e deve esser così per forza? Ancora dall’articolo di Bonazzi: «Curiosamente, soltanto un leader mondiale non ha mai fatto uso delle metafore belliche: Angela Merkel. Forse perché in Germania queste immagini rimandano a un passato ancora troppo problematico; forse per via del suo carattere così controllato e schivo, poco propenso alla ricerca di frasi ad effetto. Fatto sta che Angela Merkel non ha mai evocato scenari di guerra: ha cercato di evitare troppe metafore, e quando le ha usate ha parlato di “ghiaccio sottile” o “corsa sulla lunga distanza”. Ha dato una prospettiva temporale quando gli altri si trinceravano nel qui e ora. Si è rivolta all’intelligenza delle persone, non alle loro emozioni. Sarà un caso se la Germania sta facendo meglio di molti altri Paesi? Di certo sta mostrando che anche le parole contano, soprattutto in politica».
Già, la Germania; e quella particolare attenzione alla Grecia classica, verrebbe da aggiungere.