Non va espiata religiosamente, ma scientificamente curata

È una malattia, non un castigo. E non avrei mai immaginato di scrivere un post come questo, in tempi normali. Ma normali, questi tempi, non lo sembrano affatto, se si deve leggere lo scatenarsi dei governanti contro i giovani che, scellerati, si permettono di uscire di casa, dopo più di due mesi di questa quarantena strana anch’essa, che ha tenuto isolati e rinchiusi i sani e i guariti, oltre che i malati e i contagiati.

Una condanna, quella verso i ragazzi e la loro “movida”, che ha i tratti del giudizio morale, sostenuto, arrischierei a dire con astio, da un fervore quasi religioso contro la libertà cautamente riconquistata. È come se, nell’approcciassi alla pandemia, non si seguissero le linee scientifiche per la cura, ma si cedesse alla richiesta di una sua espiazione, appunto, religiosamente intesa. E superstiziosamente, aggiungo. Perché non può esser altro che per superstizione, se si immagina di poter tranquillamente stare, per 8 ore, in dieci, cento, mille al chiuso di una fabbrica, di un ufficio o di un supermercato, e poi si vedono gli untori nei quattro amici seduti da una mezz’oretta a quel dannato e dannante tavolino del bar.

Addirittura, nella veste paternalista e sacerdotale, chi governa la res publica pensa a spot per educare, più che a interventi per contrastare la diffusione del virus sul piano medico e sanitario. Dove sono gli screening per capire il reale stato della diffusione del morbo, che pure erano stati ipotizzati? Dove i tamponi o le analisi sierologiche, sempre che vi mettiate d’accordo sul quanto e quali servano davvero? Dove l’incremento strutturale del numero dei posti letto negli ospedali, dovesse davvero verificarsi la paventata «seconda ondata» della pandemia?

Invece, è come se l’unica responsabilità per le morti sia di quelli che, oggi, escono di casa. Dite che c’entra anche il fatto che per anni si sono tagliate le spese sanitarie, se in Italia a fronte di oltre 220 mila casi di contagio si siano registrate più di trentamila morti, mentre in Germania, con 180 mila contagi, 8.200, e senza le chiusure che abbiamo avuto qui? Sarà per caso collegato al fatto che lì, fra il Reno e il Brandeburgo, come ricordava il New York Times quasi due mesi fa, i letti in terapia intensiva che a gennaio erano 28.000, 34 ogni 100.000 mila abitanti, in confronto agli allora nostri 12, siano stati da quel momento incrementati fino ad arrivare, all’inizio di aprile, a 40.000, proprio in relazione all’allarme lanciato a inizio anno sui rischi pandemici del Covid 19? E non potrebbe persino esserci una relazione fra la nostra capacità di reazione differente rispetto a quella tedesca, ma pure a quella della Corea del Sud, paese che per ricchezza nominale e pro-capite non ci precede, e percorsi, diciamo così, non ottimali, quando non addirittura, per sentenze passate in giudicato, criminali, di gestione del comparto sanitario dall’Alpi a Sicilia?

Ecco, per capirci, ci basterebbe sapere in giro abbastanza ispettori a far rispettare le poche regole stabilite per le imprese, come pure qualcuno – Chiara Gribaudo, del Pd, perché è giusto fare i nomi, quando si fanno i complimenti – dalle file della stessa maggioranza di governo aveva proposto, prima di divenir bersaglio degli insulti della solita teppaglia in servizio permanente effettivo, sguinzagliata dal lancio di rametto dell’addestratore di turno, e salvo scoprire ora, a quasi un mese da quel suggerimento, che si è ben lungi dall’obiettivo.

Diversamente, vi è il rischio che qualcuno possa cominciare a pensare che «#stateacasa», più che un hashtag, fosse un alibi.

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