Discutendo via Facebook di aree di libero scambio e altre questioni, in un commento mi scrivono che, a emancipare la mia famiglia dalla povertà, non sarebbe stata la vicendevole progressiva apertura dei sistemi economici ma, semplicemente, l’aumento dei consumi interni. Ora, a parte il fatto che quella emancipazione è avvenuta, sì, quando nel nostro Paese stavano crescendo i consumi interni, ma anche quando prendevano forma e sostanza le istituzioni e le zone di transito e commercio semplificate, dal Gatt alla Ceca, per capirci, la mia risposta a lui è un sostanziale no.
No, nel senso che, nella liberazione dalla povertà della mia schiatta, il ruolo fondamentale non è stato giocato da quello che lui diceva, l’aumento della domanda interna e l’ascesa della classe media, quanto da un altro fattore: l’emigrazione. Senza l’approdo nell’Upper Bay del mio bisnonno e di tanti come lui, il paese in cui sono nato e le famiglie che lo formavano e lo costituiscono sarebbero stati decisamente più poveri. Senza le fabbriche e il lavoro in Svizzera e Germania nel secondo dopoguerra, pure. Senza la possibilità di andarmene io stesso a cercare un impiego altrove, anche.
Spostandosi, poterono trovare un’uscita dalla miseria direttamente i migranti, ma non solo loro. Alla voce «Basilicata» di un’enciclopedia geografia Garzanti degli anni ’70, nella descrizione dell’assetto antropico della regione, si legge: «Si può affermare, in via paradossale, che l’emigrazione è una delle principali risorse economiche […]. Una sensazione addirittura visiva dell’imponenza di tale fenomeno si ha nei paesi più poveri della campagna: mancano quasi del tutto gli uomini validi e abbondano le donne, i vecchi, i bambini. Decine di migliaia di famiglie vivono con le rimesse degli emigrati».
Certo, immagino quello che qualcuno starà pensando: «ma così dicendo», è il senso, «dove lo mettiamo l’amore per la propria terra?». Già; solo che, negli anni che ho vissuto, ho imparato che la terra è di chi la possiede. Gli stessi che sarebbero pronti a dirla pomposamente «nostra», qualora si trattasse di difenderla, in armi o meno, da altri padroni, ma che sempre sono lesti come non mai a ribadirla loro, se mai qualcuno parli di dividerla o di goderne tutti insieme.