E i bambini ci chiedono ancora quando il vento si poserà

Era un bambino pure quello nel vento cantato da Guccini, passato per il camino di Auschwitz. E lo erano anche i due fratellini di Nagasaki colti dall’obiettivo di O’Donnell nel ’45: uno che pare dormire – e mi si stringe il cuore, e non potete sapere quanto, ogni volta guardandolo – e l’altro che morde le sue stesse labbra perché già vede dove il corpicino che ha legato alla schiena sarà di lì a poco posto. Come lo era Kim Phúc nel ’72, mentre scappava con i vestiti ormai in polvere e la pelle ridotta a brandelli da un ordigno americano. Lo è il piccolo di Rais al-Ayn, o Sari Kani, come la chiamano i curdi, la cittadina siriana bombardata dai turchi.

Dal letto dell’ospedale di Hasakak, i suoi occhi incorniciati da un viso sofferente come mai dovrebbe esserlo all’età in cui è ripreso ci stanno chiedendo dove i nostri siano rivolti. Cosa stiamo guardando in queste ore? Dove mandiamo i pensieri che abbiamo? A quale problema, a quale assillo riserviamo le nostre preoccupazioni? Lui le ha tutte lì, nel volto martoriato dalle ferite di una guerra che non può (e non deve un bambino poterlo fare) capire.

Se fosse fosforo bianco o napalm quello nella bomba che lo ha investito esplodendo aggrava il profilo criminale di chi l’ha sganciata e di quanti ne hanno ordinato il lancio, ma non purtroppo il dramma che lui, piccolo, e migliaia di tanti, troppi, altri stanno vivendo. E l’indifferenza che ha già reso le notizie di quel conflitto questioni da pagine interne sui nostri giornali non ferisce e non ferirà di meno.   

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