Settant’anni di emigrazione e non sentirli

Ieri era l’anniversario della catastrofe, meglio, della «catastròfa», con l’espressione a metà fra il dialetto e il francese usata dai testimoni dei fatti e ripresa da Paolo Di Stefano nel suo libro, di Marcinelle. Lì, nelle fiamme e sotto la terra del Bois du Cazier, si capì perché mai un Paese come il nostro, senza acciaio né carbone, divenne asse portante della Ceca: aveva carne da scambiare. «Sapete perché finirono lì sotto i nostri compagni?», chiedeva tempo fa, ricordando quegli eventi, un minatore abruzzese. «Perché la nostra vita valeva meno del carbone», rispondeva egli stesso allo sguardo impietrito dell’interlocutore.

Tanti anni sono passati. Molte cose sono rimaste. Come le donne e gli uomini scambiati per denaro e costretti ad andar via dalla fame. O semplicemente dalla speranza di trovare qualcosa di meglio. Quelli che arrivano, certo, e sui quali vomitiamo bestialità immemori del passato. Ma anche quelli che vanno, che ignoriamo come furono ignorati i padri e i nonni. Un mese fa, il Dossier Statistico Immigrazione 2017 elaborato dal centro studi e ricerche Idos e Confronti, ci diceva, senza girarci intorno, che gli italiani emigrati all’estero sono tanti quanti erano nel Dopoguerra: settant’anni di emigrazione. «E non sentirli», verrebbe da aggiungere. Non sentirli nei discorsi della gente, pronta a criminalizzare chi è più disperato di noi, e non sentirli nei discorsi delle élites, che se un tempo avevano il coraggio di chiedere ai loro connazionali il sacrificio di «partire per far grande l’Italia», oggi si rintanano nel piccolo fortino dei luoghi comuni. Da cui far la voce grossa per solleticare la pancia degli istinti più beceri, prendendosela persino con chi prova a salvare nel nostro mare chi è già stato battuto dalla sua terra, dicendoli «estremisti umanitari» votati (che roba, contessa!) «all’ideologia del salvare vite umane».

E uno vorrebbe pure perdere il tempo a cercare di capire, ma poi ti spiegano che gli sciacalli non sono loro, che, per qualche dannato voto in più, gettano in fondo agli abissi la memoria di quello che fu la parte da cui vengono, lasciandola annegare come infinite volte fanno quelli che non riescono a traversare il Canale di Sicilia, ma quanti hanno l’ardire di far notare che, se uno sta per affogare, si può solo scegliere tra il tentare di salvarlo o il lasciarlo andar giù, magari distogliendo lo sguardo per ipocrita debolezza di stomaco.

Così, non hai più nulla da dir loro, a meno di non chiedere se, a condizioni invertite (e le condizioni son queste solo in virtù del caso che ha deciso per noi, per tutti noi, il posto e la condizione del venire al mondo), vorrebbero trovar sulla propria strada quegli «estremisti umanitari» o chi tali li apostrofa.

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