A voi dà fastidio il diritto di sciopero

«Ieri Milano ha vissuto un inutile mercoledì nero. Nella settimana della più importante manifestazione fieristica che attira in Italia migliaia di visitatori da tutti i continenti i sindacati hanno indetto uno sciopero del trasporto pubblico urbano che ha trascinato nel caos la città e ha lasciato senza parole gli ospiti stranieri. […] Ma evidentemente il disegno era un altro: utilizzare il Salone del Mobile per arrecare il massimo del danno, sfruttare al meglio la rendita di posizione sindacale e regolare i conti con il sindaco Beppe Sala. […] Milano invece merita di più di una sciatta replica dei conflitti del secolo scorso, ha diritto di veder dispiegata una moderna cultura del lavoro capace — certo — di tutelare i più deboli ma anche di far proprie le ragioni dello sviluppo di un’area che ha saputo riconquistarsi un rating internazionale di prima fascia e ora nel dopo Brexit ambisce ad altri riconoscimenti».

Le parole che ho citato sono di Dario Di Vico, pubblicate giovedì scorso sul Corriere della Sera. Parla di uno sciopero, che è un diritto dei lavoratori, e non gli importa affatto che poi si sia giunti a un accordo fra le loro rappresentanze e il datore di lavoro, il Comune di Milano. No, a lui preme dire che quella rivendicazione ha danneggiato la città, ha creato disguidi, ha disturbato. Si stupisce, l’editorialista di via Solferino, che si sia pensato di far leva sulla coincidenza di un evento per dar più risalto alla protesta; avrebbe preferito, magari, che essi si fossero astenuti dal lavoro a metropolitana chiusa, così che nessuno, nemmeno il Comune, si accorgesse delle loro richieste e si potesse dire che il principio era salvo, avevano manifestato, che tornassero pure al loro posto e si accontentassero. Diciamoci la verità, a Dario Di Vico come a tutti quelli che la pensano come lui non importa nulla delle trattative e delle rivendicazioni: a loro dà fastidio che qualcuno possa scioperare. Perché lo sciopero punta proprio a “disturbare” qualcuno per far emergere la necessità di un ruolo e sostenerne la richiesta di migliori riconoscimenti; se critichi quell’effetto, allora critichi il diritto a poterlo fare.

Curiosamente, quelle frasi me ne hanno fatte venire in mente altre, sempre del Corriere della Sera, scritte nel 1919: «sono molti gli ingegneri professionisti od anche dirigenti di officine, moltissimi i professionisti, i funzionari pubblici, gli alti magistrati, presidenti di tribunali e di corti, professori ordinari di università, consiglieri di stato, i quali non sanno credere ai loro occhi. Vedono dei capi tecnici chiedere paghe, le quali […] sono di 1000, 1250, 1625 e 2000 lire il mese […]. Che cosa dovremmo chiedere noi, si domandano tutti quegli alti magistrati, quei professori universitari, i quali hanno passato nello studio i più begli anni della vita per giungere sì e no verso i 35-40 anni a 600 lire di stipendio al mese ed i più anziani alle 1000 lire? La mortificazione nei ceti intellettuali è generale. I padri di famiglia si domandano se essi non hanno torto di far seguire ai loro figli corsi di studio lunghi 12 o 14 anni, dopo le scuole elementari; e se non sarebbe meglio di mandarli senz’altro in una officina». Commentandole nel suo Le origini del fascismo in Italia, Gaetano Salvemini spiegava che idee come quelle ebbero una parte fondamentale nel sostenere culturalmente la mano delle bande che andava costruendo i presupposti del ventennio a seguire.

Oggi, chissà.

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