Per loro, quella storia era già finita

«Tanto», esordisce il solito cinico e amaro amico al bar, alzando di poco gli occhi dal giornale per guardarmi di lato e distoglierli dall’articolo che stava leggendo, «mio fratello l’avevano già licenziato. Nel 1980». In quella precisazione temporale c’è tutta la verità che le sue osservazioni potrebbero contenere, e che difficilmente le mie analisi potranno cogliere appieno e restituire a chi dovesse mai leggerle.

Se li ricorda, lui, i giorni della grande sconfitta nell’autunno di trentasei anni fa, quando la Fiat annunciò, come se nulla fosse, 14.469 licenziamenti. Fra questi, suo fratello, che si reinventò tassista, come il Sergio del film Signorina Effe, e ora, a due passi da una pensione sempre spostata un po’ più in là, si trova a dover combattere con app e fai da te, fra chi lo accusa di essere parte d’una destra corporativa, lui, lasciato a sinistra anche da mezzo Pci in quelle trentacinque indimenticabili albe torinesi, e quanti lo considerano inadatto al mondo presente, «come un gettone per l’iPhone», diciamo. Che se ne vada all’estero pure la Exor, la cassa della famiglia Agnelli,  dopo che già Fca ha fatto altrettanto, a lui, a loro, ormai non interessa più nulla. Ancor meno interessa della perdita del Salone del Libro: entrambi, da lì, non hanno mai tratto alcun vantaggio, e se glielo chiedi, ti spiegano che stavolta i silenziosi sono loro. «Si preoccupassero quelli che ci campavano di quelle cose, a noi già ci lasciarono soli all’epoca e oggi a mio fratello preferiscono Uber. S’arrangino».

Forse non c’è nemmeno rabbia nelle sue parole. No, peggio: probabilmente sono piene di disperazione, disincanto, disillusione. Lui era ragazzino in quel 14 ottobre, suo fratello, più grande, giovane operaio. Lui è andato via da Torino, per lavorare, perché quella riconversione da metropoli industriale a città del terziario è costata 300.000 abitanti, dal quasi milione e duecentomila che l’abitavano negli anni ’70 ai meno di novecentomila di oggi. E poi, quell’aspetto culturale e dei servizi, davvero l’aveva interessato; ma per lui non c’era spazio, e le notizie della cronaca lo spingono a farsi idee pesanti sui perché.

Così, adesso, nutre la sua tristezza col sarcasmo che gli riesce di trovare, però non ha più voglia di muovere un dito per quelle idee che chi con più forza le professava ha usato per far carriera e arricchirsi, mentre a lui e a suo fratello non son rimasti che i libri letti, un taxi e un lavoro inappagante e precario a cinquanta o sessant’anni. Non ha più voglia di lottare, soprattutto, non ha più voglia di rischiare di sbagliare ancora a fidarsi dei compagni di lotta.

È solo una piccola storia e non spiega nulla. O forse sì; ma nel caso, il merito non è mio.

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