E quelli che non ce la fanno?

Ho sempre considerato la Leopolda più un fatto di costume che un avvenimento politico. Sempre, fin dalla sua prima edizione, per chiarire. Devo ammettere, però, che a giudicare dall’interesse di molti miei contatti social che puntualmente a ogni edizione riempiono le home di notizie, foto, e commenti sull’argomento, la sottovalutavo. Essa è di più: un vero trattato antropologico e sociologico sul nuovo potere, sulla sua rappresentanza e sulla propria rappresentazione.

È l’evento celebrativo di una élite che in pochi anni è riuscita a scalare tutte le postazioni di governo e vuole far sapere che ci è riuscita. Non lo nasconde affatto Renzi, che ricorda: «Senza la Leopolda non sarei a Palazzo Chigi». E aggiunge: «non siamo una rimpatriata di reduci, ma persone che vogliono cambiare l’Italia». Come dire: non stiamo allestendo una ricorrenza, una rievocazione, ma stiamo festeggiando il nostro successo, annunciando che durerà per tanto tempo. Ecco allora i personaggi famosi, gente che si è affermata in vari campi, numeri uno che ce l’hanno fatta, felici, sorridenti, vincenti. Tutti a dar lustro e impreziosire il racconto che i nuovi potenti fanno del loro mondo realizzato.

In quella sede sono banditi dubbi e perplessità, le obiezioni sono tenute fuori, anche la dialettica fisiologica dei partiti è allontanata, come gli stessi simboli. Tutto è affermazione, mai contraddizione. Perché l’Italia riparte, è la volta buona, a morte gufi e “rosiconi”. «Diciamo no al piagnisteo nazionale dell’emergenza. Mentre nella vetrina ufficiale campeggiava la dottrina della grande crisi con le sue nuvole d’angoscia, la realtà, quella vera, camminava sui binari di un solido galleggiamento fino alle punte di una notevole espansione che hanno che hanno caratterizzato i due anni trascorsi».

Non è un intervento della tre giorni fiorentina, è Bettino Craxi, nel 1981, in quel congresso sul Monte Pellegrino a Palermo che, pure nelle ambientazioni ideali e negli allestimenti di Panseca, molto anticipava del moderno appuntamento nell’antica stazione granducale. Bando alle tristezze, noi siamo quelli che dicono “sì” alla realtà, quella vera.

Perché dicevo che è uno spaccato sulla sociologia e sull’antropologia dell’attuale classe dirigente? Perché io guardo le immagini di quell’evento e non riesco a “immaginarmi”, nemmeno in pose morettiane, in quel consesso. Lì ci sono solo i vincitori, i vice vincitori e gli aspiranti vincitori. Gente che sa (o crede) che ora o un giorno nel futuro toccherà a lui, che si affermerà, che “ce la farà”. E tutti gli altri, quelli che non ce la fanno, che non ce la faranno?

Io che non ho la levatura culturale di un Nardella, la profondità di analisi di un Faraone, l’ampiezza di visione di una Picierno, la finezza d’eloquio di un Nicodemo, che non sarò mai fra quei migliori né fra coloro che ne sanno apprezzare le doti, cosa dovrei fare? Sparire? Esiliarmi? Il successo in scena a Firenze in questo finesettimana celebra quel tipo di trionfatori, con quelle qualità e quelle caratteristiche. Gli altri, tutti gli altri, a meno che non si dispongano fra la platea plaudente, sono ignorati, dimenticati, esclusi.

Non c’è posto per chi porta parole contrarie, non c’è spazio per le esigenze, poco cool ma molto real, di chi è povero, sconfitto, emarginato. Quel modello è solo affermativo perché parla delle affermazioni dei vittoriosi. I perdenti o quanti non si prestano al gioco sono messi da parte. E da parte cercano altre risposte alle loro domande, che non possono non essere contro l’apparato retorico e il portato ideale che lì è dispiegato.

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