E chiamarli princìpi, valori, ideali?

“L’articolo 18 è un simbolo, un totem, una bandiera ideologica della vecchia sinistra, che dobbiamo superare per entrare nel mondo nuovo”. Quello di Huxley, immagino, in cui, al motto di “Comunità, identità, stabilità”, tutto ciò che appartiene alla società precedente viene rinchiuso in una riserva.

A parte che simboli, totem e bandiere, non per loro stessa natura sono positivi o negativi a prescindere, e che spesso anche quelli hanno la loro importanza, perché sono più di un gesto estetico o di uno stemma da appuntarsi sul bavero della giacca, nel merito, l’articolo 18 non è affatto quello.

Quella norma rappresenta princìpi, valori, ideali della sinistra, rappresenta quel concetto per cui il lavoro è un aspetto non esclusivamente monetizzabile, perché, per la sinistra, esso ha smesso di essere la pietra di scarto del sistema economico per diventare chiave di volta dell’intero sistema dei diritti. Tanto che su questo (e per precisa volontà ascrivibile al clima in cui su tale linea si assestarono gli ambienti culturali della sinistra allargata, comprendente anche il mondo cattolico, non solo quello socialista) si fonda la Repubblica, e che non è pensabile si basi sul “quanto fa?”, su un qualcosa a cui si debba rinunciare dietro compenso, sul “tenga pure il resto e si accomodi all’uscita”.

Ed è tutto questo perché è la traduzione in legge dell’idea che il lavoro sia la forma di partecipazione del singolo alla vita della società, che non basta parlare di soldi, perché si discute di democrazia, si discute di civiltà, si discute non di rapporti di forza, ma di vite ed esistenze reali.

Sono princìpi vecchi, valori antichi, ideali del passato? Certo, con dietro le donne e gli uomini che vi si sono battuti. Là parliamo di sangue e carne viva, e non è un modo di dire. Parliamo della lotta nelle fabbriche per affermare che gli esseri umani non sono una variabile del processo di produzione, parliamo del confronto aspro per ridurre il peso della fatica e aumentare le tutele per chi la compie, parliamo delle battaglie dei braccianti per il giusto riconoscimento di quello che in quel lavoro mettevano: sudore, speranze, vita.

Dire che alcuni diritti sono sostituibili con un indennizzo, significa dire che nei rapporti di lavoro, e nella civiltà che su quella si fonda, chi ha soldi può comprare anche quelli, che essi non sono più tali, ma al massimo divengono clausole contrattuali, comprimibili e quindi non più rivendicabili, semmai concessi.

Significa non porre baluardi allo strapotere del denaro e di chi lo possiede, significa arrendersi all’idea che ogni cosa abbia un prezzo, persino le persone che da quei diritti sono tutelati, significa dire che chi può pagare quel prezzo può far proprie tutte le cose degli uomini, e se non può perché una legge glielo vieta, allora dovrà comprare pure quella: “con 24 mensilità, anche in comode rate, potrete avere tutto questo, direttamente a casa vostra e senza costi di spedizione. Benvenuti nel futuro”.

Che a me, però, ricorda molto da vicino un passato non tanto bello.

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