Vincere la guerra sotto le insegne degli altri?

Ieri ha vinto Renzi. Di nuovo e ancora. O meglio, ha vinto proprio perché aveva già vinto a dicembre, e con i numeri di quella vittoria, ha determinato una direzione che si muove come un sol uomo, per giunta entusiasta, ad ogni accenno del capo.

Molti titoli dei giornali dicono, trionfalisticamente, che il segretario del Pd ha vinto nella sua direzione. Ma, appunto, è la sua direzione. Composta al 70 per cento dai suoi, dopo i risultati del congresso, a cui da ultimo si sono aggiunti i “giovani turchi”, che non sono quelli che volevano riformare l’Impero Ottomano né quelli di Cossiga che volevano scalare la Dc, ma quelli di Orfini che, essendo giovani, ça va sans dire, stanno con la segreteria dei giovani che sostiene il governo dei giovani nel Parlamento dei giovani. E ci mancherebbe.

Ora, i commentatori si peritano di spiegare che quei numeri sono così perché Renzi ha vinto il congresso. Bravi: perché io che ho detto? Ma allora, però, visto che quelli sono i numeri, e alla fine si vota a favore del segretario invece che discutere di linea politica, perché farle quelle direzioni? I rapporti di forza sono noti, gli orientamenti anche, tanto vale risparmiarsi convocazioni e streaming, no?

La cosa che mi lascia più perplesso, però, è un’altra. Nell’entusiasmo generale, pare secondario il fatto che la vittoria del pensiero renzista e l’affermazione della Wille zur Macht renziana, siano avvenute sotto le insegne della destra. L’abolizione dell’articolo 18, l’attacco ai sindacati, e soprattutto l’evocazione di un rapporto diretto e immediato con i cittadini saltando i corpi sociali intermedi (“non medio nel Pd, parlo agli italiani”, “non dialogo con le associazioni, discuto con gli imprenditori”, “non tratto con i sindacati, mi rivolgo agli lavoratori”), in una coincidenza di visione, indirizzo e parole fra popolo, Stato e capo (“noi tifiamo per l’Italia, gli altri gufano e vogliono il fallimento del Paese”), aspetto preoccupante, anche senza tradurlo in tedesco.

Stupisce pure la circostanza che sotto quelle bandiere oggi si vedano marciare allegramente quelli che fino a ieri volevano abbatterle e bruciarle, ma questo è un aspetto che attiene alla situazione dei singoli e al mutamento, per quanto repentino e reversibile, delle loro opinioni.

A non convincere, poi, è l’impianto stesso del ragionamento, soprattutto di quelli che dicono che “la maggioranza  ha deciso così, bisogna adeguarsi”. Perché potrebbe non essere così facile. Cioè, dopo aver per anni mobilitato il consenso su quei temi ritenendoli fondamentali e caratterizzanti della propria essenza politica, è un arduo pensare che a un semplice “contrordine” si possa cominciare a marciare tutti nella direzione opposta, senza che nessuno si ponga il dubbio sulla prosecuzione della marcia, se non altro, per rispetto alle cose che si dicevano e ognuno di noi diceva. La coerenza è un valore antico, certo, ma non tutti sono giovani abbastanza per ignorarne l’esistenza.

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