Nemmeno sei piedi di terra

“Sei piedi di terra inglese, o quant’altra in più sarà necessaria, dato che egli è più alto degli altri”. Così, si narra, rispose uno sprezzante re Aroldo II d’Inghilterra al fratello che gli chiedeva cosa sarebbe spettato al suo alleato vichingo, il re di Norvegia Harald III Sigurdsson, conosciuto con l’appellativo di “Hardrada”, lo spietato.

Oggi, ai disperati che solcano il Mediterraneo con le loro imbarcazioni non si riescono a dare nemmeno quei sei piedi di terra. Il sindaco di Pozzallo, commentando l’ultima, ma solo in ordine di tempo, tragedia dei migranti, ha infatti detto che ormai “non c’è posto neanche per i morti”.

Già. Come nella strage dello scorso ottobre a Lampedusa, quando a mancare furono le bare. Come nei tanti giornali a cui, da domani, mancheranno spazi nelle loro pagine, fra le riforme da fare e il nuovo allenatore della Nazionale da scegliere, per raccontare dei corpi che quel posto che sulla terra non trovano lo cercano in fondo al mare. Come nei nostri pensieri, stretti fra il mutuo da pagare e le preoccupazioni per il lavoro, magari con un occhio al meteo, sperando non ci rovini l’unica settimana di vacanza che siamo riusciti a concederci.

“Non c’è posto neanche per i morti”. Figuriamoci per i vivi. E poi, diciamocelo francamente e senza ipocrisie: questi che cercano di giungere sulle nostre coste, che vogliono? Non possiamo mica accoglierli tutti, giusto? Anche noi abbiamo problemi di disoccupazione, anche qui la crisi minaccia e impoverisce, anche nelle nostre case bisogna fare i conti con le difficoltà, cosa pensano?

Certo. Loro continuano a partire, s’imbarcano, ma cosa pensano di trovare? Un lavoro? La fortuna? Le ricchezze? Ma non scherziamo; qui non c’è posto per loro, vivi o morti che siano. Qui si sta stretti e c’è poca roba, come pensate si possa trovare spazio e risorse anche per altri? Finitela con questo buonismo, ché le leggi della fisica e dell’economia non possono essere piegate alle vostre posizioni ideologiche.

Ovviamente. E come si può negare la verità della crisi? Come si possono non vedere le difficoltà con cui tutti i giorni ci si deve scontrare? Come si può ignorare che è sempre più arduo immaginare di poter aiutare gli altri se non riusciamo più a star bene noi, se qui “non c’è posto neanche per i morti”?

Ma che cosa siamo diventati? In che modo è potuto accadere che il nostro modo di rapportarci agli altri divenisse solo una questione contabile? Un affare di ragioneria? Discutiamo di donne, uomini e bambini affogati nella disperazione, prima che nel mare, come portassimo la contabilità. Guardiamo a quegli sbarchi con la paura di trovarci quei naufraghi della vita, e non solamente dei flutti, sotto casa nostra a chieder di potere vivere un giorno di più.

Temiamo che quella sia la fine delle nostre vane sicurezze, guardiamo ai dati dell’esodo come si tiene in conto una classifica, con tanto di record e paragoni con le precedenti stagioni degli arrivi, e dimentichiamo che quella che chiamiamo “storia dell’umanità” non è altro che la narrazione collettiva d’una continua migrazione. E che, a parti invertite solo dall’imperscrutabilità della sorte, potrebbero essere nostri qui corpi che dormono sul fondo del Canale di Sicilia, perché per essi, da questa parte del mare, non ci sono nemmeno sei piedi di terra in cui riposare per sempre.

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