Ma non bastava non votarlo?

Ieri, durante l’assemblea della (sedicente) sinistra del Partito Democratico, Gianni Cuperlo (come aveva fatto alcuni giorni prima Stefano Fassina su l’Unità) ha parlato dell’opportunità di sostenere le ragioni del referendum per cambiare e abrogare le norme del fiscal compact. Bravo; quelle misure sono il cappio a cui si è deciso di impiccare il Paese, con piani assurdi di rientro che, alla prima prova pratica, si sono tradotti nella richiesta di un rinvio. Quindi, in questo senso, ogni azione di modifica non può che essere ben accetta.

Però, il cambio delle opinioni non cancella la storia, specialmente quella recente. E questa dice che quelle norme non sono nate in conseguenza dei movimenti della crosta terreste o in virtù di un capriccio degli astri curiosamente allineatisi. Sono invece la traduzione normativa dell’ideologia della stabilità incarnata nella contabilità di bilancio, da tutti i politici responsabili condivisa fino a un’ora fa. Responsabili, perché così ci spiegavano di essere, e perché di quelle, nei fatti, lo sono.

Il fiscal compact di cui ora si chiede, e giustamente, la modifica è stato voluto, votato e difeso dalla quasi totalità del Parlamento nella passata legislatura e inserito in Costituzione a tempo di record. Anche col voto di Cuperlo e di molti di quelli che ora vogliono appoggiare la consultazione popolare (non di Fassina, va detto, che a quell’epoca non era parlamentare).

In pratica, coloro che lo hanno deciso e definito, appena una paio d’anni fa, oggi ne chiedono la modifica. E fin qui sarebbe tutto normale, dato che, come si dice in questi casi, “solo i paracarri non cambiano posizione”.

Però qui è un po’ diverso. Perché mentre quando il pareggio (o equilibrio, come lo chiamano eufemisticamente molti dei suoi sostenitori) di bilancio “l’hanno fatto legge”, si sono mossi nell’ambito esclusivo del Palazzo, con l’atteggiamento stizzito verso le critiche provenienti da fuori, dalla Piazza, quasi che quelle fossero solo il rumore di fondo che disturbava, distraendoli, i manovratori. Adesso, gli stessi chiedono a quei rumorosi disturbatori di correggere gli errori fatti da loro nel ruolo di  manovratori. E senza nemmeno dire “scusateci, avremmo dovuto chiedere il vostro parere e ascoltarvi prima” (di dar ragione a quanti dicevano che fosse una follia ideologica e fuori dal mondo, nemmeno a pensarlo, ovvio).

Ma pure questo potrebbe essere normale, per una classe dirigente che, nell’approcciarci a quanto accaduto alla sinistra e nella politica  italiana, ha preferito lavorare sulla rimozione consolatoria piuttosto che ricorrere alle dure tecniche dell’analisi dei fatti e degli accadimenti.

Solo che, in questo caso, l’abusato metodo del disconoscimento delle responsabilità (ancor più curioso se fatto da chi sull’essere responsabile ha costruito la propria alterità politica) rischia di allontanare ancor di più i cittadini dalle istituzioni, per una strana eterogenesi dei fini. L’elettore chiamato a riparare agli sbagli fatti dalle istituzioni, e proprio da quelli che li hanno fatti, potrebbe infatti chiedersi: “ma non bastava non votarle quelle cose?”. Oppure: “ma non potete cambiarle voi con gli stessi metodi con cui le avete approvate, visto che, proprio sul fiscal compact e sulle politiche di austerity, a parole, vi dite tutti concordi nella necessità di superare le attuali norme?”.

E soprattutto: “ma se, ogni volta che ci sono da assumere scelte importanti e fondamentali, dimenticate di consultarci nel processo di formazione delle decisioni, salvo poi ricorrere a noi per porre argine agli effetti delle vostre azioni, e ignorare le nostre indicazioni quando sono troppo lontane da quello che vorreste vi indicassimo, perché non fare direttamente a meno di tutti voi? Alla fine, basta un governo o, meglio, un’amministrazione per dar corso alla volontà popolare. Addirittura, anche solo un uomo al comando, da osannare sotto un balcone, se le cose vanno bene, o da esporre alla pensilina di un distributore, qualora dovessero andar male”.

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