La sindrome di Alberto

“Se delle scelte fatte dagli eletti del nostro partito non si può discutere, perché bisogna essere ‘leali alla ditta’, se non ci sono luoghi di confronto reale, perché quello che dice il semplice iscritto non vale quanto ciò che viene detto dal parlamentare, dal consigliere, dal sindaco, se con le mie idee non posso contribuire all’indirizzo politico, perché le cose che dico vengono ignorate o banalizzate, perché dovrei ancora partecipare? Se il mio contributo è inutile, perché tanto decide chi è stato eletto, perché dovrei continuare a darlo? Solo per unire anche il mio voto all’investitura di chi sarà chiamato a decidere per tutti? Se è così, sinceramente, non m’interessa e non ho tempo da sottrarre alla mia famiglia e alla mia vita solo per far parte di una massa di deleganti”.

Queste parole, pronunciate da un caro amico che qui chiameremo Alberto (anche perché è il suo nome, e spero non me ne vorrà), le ho ascoltate un anno fa all’uscita di un convegno. E devo dire che, fino ad allora, non avevo mai pensato ai fenomeni di progressivo allontanamento e disinteresse con quel taglio e quell’interpretazione.

A parlare così, infatti, non era un qualunquista e individualista disinteressato alle sorti delle forme organizzative della politica o un nichilista spinto dalla voglia di vederle fallire. No, era uno che in quelle si era impegnato e continuava a farlo. E proprio per questo non sopportava il modo in cui le cose da tempo stavano andando.

Questo, ai miei occhi, chiariva anche il fenomeno dell’abbandono di tanti militanti dei partiti di sinistra, quelli storici, quelli in prima fila alle manifestazioni e agli scioperi e nel retro delle feste ad arrostire le costine e le salsicce. Quelli c’erano perché volevano “partecipare”, fare parte di qualcosa, non essere “una massa di deleganti”. Per essere solo inclusi in quest’ultima, basta al massimo andare a votare, alle primarie o alle elezioni vere, sempre che non si abbia di meglio da fare, tipo andare al mare. A lui, come a tanti altri, questa roba qui non piaceva e non interessava: perché doveva continuare a dare il proprio contributo?

È un problema serio, che chi fa politica, o intende farla, dovrebbe porsi. Non basta dire “ce ne faremo una ragione” quando interi pezzi della società criticano il modo di fare di chi è chiamato a decidere, e non ci si può consolare contando i voti validi ad assegnare i seggi e certificare le percentuali, considerando l’astensione “un fenomeno normale nelle democrazie mature”.

Perché per quella cosa sì, il semplice delegare e scegliere chi dovrà poi decidere, non serve l’impegno e non vale la pena di sottrarre tempo alle famiglie e alla propria vita. Se non si è, né si vuol essere, fra i delegati, se non interessa la politica come carriera nelle istituzioni, se non si pensa che l’unico modo per farla sia essere lì dove il governo della cosa pubblica materialmente si esercita, semplicemente ci si allontana.

Questo modo di intendere la politica come “affare degli eletti”, però, è quello che si sta spiegando in ogni situazione e a qualsiasi livello. Il messaggio che si rivolge ai cittadini-elettori è: scegliete i governanti e poi “lasciateli lavorare”. E se questa è la premessa, se non bisogna disturbare il manovratore, perché poi ci si stupisce che in molti rimangano a casa? Se questo è il modello che si persegue, come cantavano I Nomadi, a che serve poi menarla con la storia del riflusso?

Già. Quello di cui parlo, la partecipazione intesa come esser parte di un qualcosa di più grande, è come le favole di quella canzone: una cosa in cui nessuno crede più. Il verbo è la governabilità, non la rappresentanza, e quindi l’individuazione di chi dovrà governare, non rappresentare quelli come Alberto. E lui sa che, ci sia o meno, quei governanti saranno individuati, e non lo rappresenteranno perché non è quello ciò che vorranno fare: a loro basterà decidere. Quindi, starà a casa, non sottraendo tempo alla propria famiglia e alla propria vita. Al massimo, se si ricorderà e se non avrà di meglio da fare, andrà a votare. O forse no: tanto, che cosa cambierebbe?

E io? Beh, potrei offrire una birra ad Alberto e aspettare con lui che l’onda torni, alla fine del riflusso.

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1 risposta a La sindrome di Alberto

  1. Elio Rostagno scrive:

    Eddai Rocco, cerca di essere un po’ meno amaro e, per rimanere in tema di testi di canzoni, di non affrontare sempre “la vita a muso duro”. La società è cambiata, la politica è cambiata, il modo di partecipare, fuori delle riserve indiane, è cambiato… Ancor grazie se i valori fondamentali, dico i valori non i totem, della sinistra resistono.
    Bisogna esserci e combattere per orientare il flusso nella direzione che auspichiamo, perché il “riflusso” non si sa se è quando arriverà.
    Con affetto e sincera stima. Elio

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