Un governo contratto

Che poi uno si sveglia, legge il Corriere e pensa: “toh, Civati che fa l’editorialista per quelli di via Solferino”. E così corri in alto con lo sguardo, leggi la firma e… no, non è Civati. È il direttore; di persona, personalmente.

Perché ci poteva pure stare che fosse Civati, che so, per una di quelle regole non scritte del Pd e della politica, tipo che se vinci fai il segretario, se arrivi secondo il presidente e terzo il notista politico per il Corriere della Sera.

No, davvero. Perché non si capisce perché (o forse sì), le cose che qualcuno diceva prima, da solo, ora le dicono in tanti (o forse le dicono solo ora perché adesso sono in tanti; vai a capire). Il Corriere che gioiva per le sorti dell’intesa largamente ritrovata, ci spiega che siamo all’ultima occasione per Letta, quella, pensa il direttore, di stabilire due cose due, fare una specie di contratto con le forze di maggioranza, e lanciare l’azione dell’esecutivo. Dice infatti De Bortoli: “meglio poche cose, importanti per la funzionalità del Paese, per il lavoro, le famiglie e le imprese, ma con elevata possibilità di tradursi in atti concreti, efficaci, reali. In caso contrario registreremmo, come in questi giorni, un altro regalo a Grillo e ai populismi di ogni risma”.

Scusate, ma cos’altro era se non questa la tesi di quelli che al congresso e prima e da subito dopo il voto chiedevano, e chiedono, che si stabiliscano le priorità (nuova legge elettorale, per la funzionalità del Paese, e misure per il lavoro e chi non arriva a fine mese, e sono molte famiglie) e si torni al voto, proprio per evitare che nel pantano dell’indecisionismo crescano vigorosi i caimani e zirlino festanti i grilli? Quindi, non era da stigmatizzare o deridere o, peggio, ignorare chi le diceva prima?

Poi, mentre sei in viaggio, alla radio ti dicono anche che molti parlamentari della sinistra Pd ritengono non in grado di dare risposte ai problemi del lavoro sia il job act di Renzi (beati coloro che han potuto leggerlo) sia le misure sul cuneo fiscale ipotizzate dal governo nella legge di stabilità. Quella che da tempo molti, anche nella maggioranza, dicevano non all’altezza dei problemi? Quella di cui Barca, ad esempio, su La7 alcuni giorni fa riteneva limitato l’impianto perché non dava nuovo impulso all’occupazione, ma al massimo metteva qualche soldo in tasca a chi un lavoro già ce l’ha e che quel soldo avrebbe messo nel risparmio? Ora se ne accorgono anche gli altri; peccato che ormai è legge, con giubilo diffuso al momento della sua approvazione e accuse di disfattismo a chi ne denunciava i limiti. Ma quell’accusa di visione limitata, non è un vezzo intellettualista, nasce proprio dalla considerazione che è l’impianto da cui la stessa è scaturita ad essere sbagliato, e così come stanno le cose, e fin quando le cose staranno così, meglio non potrebbe essere.

Perché, mentre si critica il job act ancora da scoprire, si scopre che Alfano, il pilastro responsabile su cui si è edificato il governo Letta bis (o è già tris?), vuole destrutturare anche il  concetto di contratto nazionale, e che nei responsabili del Nuovo Centro Destra, per parlare di art. 18, c’è da annoverare anche Sacconi, per dire. E mentre, meritoriamente, un deputato Pd si chiude in un Cie per dare più voce alla protesta dei migranti contro l’assurdità della Bossi-Fini, l’Alfano di cui prima dice che non se ne parla proprio di cambiare quella legge.

Infine, al tg della sera, ti raccontano che Napolitano ha imposto a Letta il ritiro del “salva Roma” perché la natura del testo, così come emendato dalle Camere, era diventata poco consona con i principi dell’urgenza e dell’omogeneità delle disposizioni legislative. A parte che sull’omogeneità abbiamo una lunga storia (oggi s’è approvato il decreto “milleproroghe”, che, un po’ come il “millefiori” del miele, va sempre bene quando non si deve spiegare troppo cosa ci sia dentro,) sull’urgenza si regge l’intero impianto che sostiene questo governo, e quello che lo ha preceduto, dai tempi in cui si diceva, dalle colonne del giornale degli industriali (per la cronaca: anche loro critici ora): “fate presto”. Il messaggio di Napolitano alle Camere, poi, segna la seconda puntata del discorso d’insediamento. Dice ai parlamentari: avete sbagliato, non siete capaci di fare le leggi come si fanno, allora intervengo io. E chissà se e quanti hanno applaudito pure questa volta.

Quello che mi chiedo, però, è: che cosa succederebbe se si passasse per il vaglio della logica le frasi che si leggono o si ascoltano? Per esempio, se De Bortoli sostiene che bisogna decidere quelle poche cose da fare in concreto, vuol dire che oggi se ne dicono tante e inutili? Che questo governo, fino ad ora, non ne ha fatte di efficaci e reali? All’anima dell’emergenza da cui è nato!
Oppure, sostenere che, con il job act si rischia ripercorrere gli errori di fondo della riforma Fornero, significa dire che quella è stata un male per i lavoratori? E se sì, visto che quelle norme non sono nate dalla deriva dei continenti ma divenute legge con voto parlamentare, significa dire che anche quelli che l’hanno convertita sono correi della professoressa? E ritenere insufficienti per l’occupazione, problema dei problemi oggi, le misure previste nella legge di stabilità, vuol dire che tutta la prosopopea trionfalista di “misura salva Paese” nell’annuncio dei capigruppo al momento della fiducia, è stata, quantomeno, troppo generosa?

O ancora, se si condivide il giudizio di Napolitano sui decreti in generale e sul “salva Roma” nello specifico, significa che quelli che scrivevano “non avrai altra legge se non per decreto, non la voterai se non per fiducia” non erano proprio impazziti o solo troppo sarcastici?

E poi, se quel decreto “salva Roma” era diventato impresentabile, vuol dire che il Parlamento ha compiuto un vero assalto alla diligenza, inserendovi di tutto; i parlamentari che condividono il giudizio di Napolitano, condividono anche questo? E se sì, perché hanno inserito, o non hanno impedito ai loro colleghi di inserire, quegli emendamenti? O ancora, se fra parlamentari della stessa maggioranza non ci si riesce a fidare (perché, se quegli emendamenti son stati accolti, erano di maggioranza), perché poi ci si meraviglia che in quello schema di maggioranza sempre meno abbiano fiducia, e alcuni proprio non ce l’hanno mai avuta, tanto da non avergliela votata, seppure isolati fra i compagni più vicini?

De Bortoli, per finire da dove ho cominciato, dice che l’unica possibilità per Letta di andare avanti e fare una sorta di contratto di governo. Io non credo (e poi, questa tesi, dovrebbero avversarla quelli che il governo lo sostengono e l’hanno sostenuto, dato che, se ci fosse bisogno di quello per proseguire, vorrebbe dire che fino ad oggi se è andati avanti senza accordo, à la carte; come con il “salva Roma”, appunto). Credo, invece, che continuando così, delle cose concrete, efficaci e reali che chiede il direttore del Corriere ne vedremo poche. E non perché manchi un contratto – che pure manca –, ma perché è proprio lo schema che sostiene l’esecutivo e il patto di maggioranza a farne un governo, bloccato, fermo, contratto.

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