Dell’ideologia della governabilità ai tempi della democrazia sospesa

L’affaire Ablyazov/Shalabayeva ogni giorno ci svela (e temo lo farà sempre di più in futuro) scenari drammatici per l’immagine del Paese e comici per quella di chi è chiamato a guidarla.

Ma questo aspetto lasciamolo pure alla cronaca, per ora. Mi interessa invece la qualità del dibattito politico che intorno a questa vicenda si è sviluppato. È evidente a tutti che di quella storia il ministro degli Interni è responsabile, che sapesse o che non sapesse. Ma lui quella responsabilità non se la assume, anzi, la scarica su altri. Ed in questo ha un forte alleato, il presidente del Consiglio che lo difende ed assicura, con il suo ruolo e con la sua parola, sull’affidabilità del titolare del Viminale. In questo modo, lega le due sorti in una.

Il cemento di questa unione è poi costituito dall’intervento del Capo dello Stato, che pone la questione non nei termini che meriterebbe e nelle dimensioni in cui si dovrebbe svolgere, cioè limitata all’azione ed alla figura di Alfano, ma la estende all’intero governo Letta, ed alla sua irrinunciabilità per il Paese in questo momento.

La responsabilità Alfano non se la assume, ma, per “spirito di responsabilità” (curiosamente spesso si usano le stesse parole), l’intera maggioranza di governo difende il ministro al Senato, respingendo la mozione di sfiducia presentata dall’opposizione. “Alfano non sapeva e non è responsabile di quanto è avvenuto”: lo dice Letta, lo afferma Napolitano, lo conferma il voto del Senato. Giusto? Beh, negli scorsi anni, quelle stesse aule hanno attribuito anche improbabili parentele; giudicate voi.

Il fatto è, però, che in gioco in questa storia, dal punto di vista politico (perché su un piano diverso, gli unici destini davvero minacciati sono quelli di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua) non c’erano solo le sorti del ministro o del Governo, delle quali, sinceramente, in tutti i casi ce ne saremmo fatti una ragione. C’era in ballo l’essenza stessa della democrazia, delle sue forme e delle sue pratiche. Ed anche in questo caso, come da troppo tempo, queste sono state di nuovo e ancora sospese, la democrazia stessa è stata sospesa.

Il ragionamento seguito da quanti hanno votato “no” alla mozione di sfiducia, le parole di Napolitano, l’intervento di Letta, si inserivano tutti in un apparato ideologico neoautoritario e antidemocratico. Un apparato che sotto la normalizzata dicitura del “non ci sono alternative”, nasconde una sottrazione di potere alle assemblee rappresentative e, quindi, al popolo che le ha elette. Ma non c’è nulla di illegale in ciò, e qui sta il bello, se così si può dire, perché avviene, contrariamente alla retorica “obbligata” che quelle decisioni si danno come abito, per libera e voluta scelta dei rappresentanti, anche se in palese violazione del mandato ricevuto, con il voto, dai rappresentati.

Cosa ha detto, infatti, Napolitano? Che sarebbe velleitario e irresponsabile pensare maggioranze diverse da quella che sostiene Letta, che senza quel governo ci sarebbero forti ripercussioni e che il Governo deve andare avanti comunque. Cioè, ha detto alla maggioranza in Parlamento che non poteva decidere autonomamente, limitandone, seppure non formalmente, la libertà di mandato (quella di cui parla l’art. 67 della Costituzione). E quella maggioranza, al Senato, ha obbedito. Certo, una parte di quella maggioranza, perché gli faceva comodo e avrebbe così dimostrato la sua forza, un’altra perché non sapeva o non voleva fare altrimenti. Non sapeva o non voleva. Non poteva non è valido; bastava votare diversamente.

Ora, lo so, le giustificazioni si sprecheranno. La prima: “sarebbe caduto il Governo”. A parte che non credo, visto che a dimettersi avrebbe dovuto essere un solo ministro, responsabile (art. 95 della Costituzione) del ministero che guida. Ad unire in una le venture di ministro e governo, al massimo, è stato Letta, assicurando che Alfano non sapeva (ovviamente, se si scoprisse che non è così, sarebbe stato anche Letta a mentire al Parlamento; questo però solamente se si traessero le deduzioni logiche dalle affermazioni apodittiche). Ma fosse anche vero che sarebbe potuto cadere il Governo, mi chiedo: e quindi? I governi in democrazia cadono, nessuno ne fa un dramma. Perché, se non si può sfiduciare un ministro altrimenti cade il Governo, allora significa che i ministri possono fare quello che vogliono?

La seconda: “se cadesse il Governo, ci sarebbero ripercussioni forse irrecuperabili sui mercati”. Eccoli, i mercanti nel tempio della democrazia. Il Parlamento si piega ai dettami dei mercati. La politica si dice incapace di dare una guida autonoma, di scegliere da sé stessa le linee che deve seguire. I cittadini, ne traggono le conseguenze, e sublimano la sfiducia non riconoscendo in quella politica e in quelle istituzioni degli interlocutori credibili. Disincanto, discredito e astensione sono i sintomi della malattia; indignazione, riorganizzazione e pratica di altre forme politiche ed aggregative, i passi per la ricerca della guarigione. In tutte queste tappe, la politica “istituzionalizzata” è presente solo in quanto elemento avversativo e avversato.

La terza, infine, è il tema portante, l’asse su cui ruotano le azioni dei partiti maggiori e il punto su cui imperniano le loro profonde discettazioni leader e peones delle larghe intese: “non ci sono alternative”. Ma allora, deputati e senatori del Parlamento italiano, leader e segretari dei partiti di maggioranza, guide e ispiratori della politica che conta, se tutto ciò che fate è obbligato e se non si può fare altro e diversamente, voi che decidete? Qual è il vostro portato autonomo e originale? Cosa siete chiamati a valutare “in nome e per conto” del popolo che vi ha eletto? Se tutto è fatto nell’unica maniera in cui si può fare, nel solo modo possibile, lasciateci i funzionari (gli unici responsabili davvero, come dimostra il caso kazako; giusto?), un gruppo di tecnocrati ed al massimo un uomo solo al comando, e chiudiamo tutto il resto. Perché, se in quelle assemblee non si può più decidere, se la responsabilità va oltre la libertà degli eletti di esprimere il proprio voto in assenso o dissenso, se il mandato degli elettori è sconfitto dalle ragioni dell’imperscrutabile volere dei mercati, allora la democrazia, banalmente, non c’è più.

Con la retorica della responsabilità si sono tacitate le voci che invocavano la piena praticabilità delle possibilità dell’agire politico. Attraverso l’ideologia della “governabilità”, spinta e sospinta da tutte le forze che contano e possono, il potere costituito s’è fatto costituente, ed ha imposto al discorso pubblico, prima ancora che nell’agire quotidiano di quanti avrebbe dovuto rappresentare la volontà politica di chi li ha eletti, una soffocante pacificazione normalizzata, l’esatto contrario della dialettica conflittuale che anima le democrazie.

Si sono chiuse le strade ed i rivoli in cui la libertà poteva scorrere; s’è detto, come si ricordava, che il Governo non può cadere, che non si possono immaginare alternative, che è irresponsabile tentare di praticarle, che quella che sostiene il Governo è l’unica maggioranza possibile. In questo modo, appunto, la democrazia è stata sospesa. E la più plastica delle dimostrazioni di questa sospensione è in quella frase paradossale in un sistema in cui il potere dovrebbe essere esercitato su mandato del popolo attraverso le elezioni: non si può tornare a votare. Giustificata, tale affermazione, dalla presenza di una legge elettorale inadeguata, che però chi dovrebbe cambiare non cambia e usa come minaccia e spauracchio per il ritorno al voto. Sembrerebbe una follia escheriana, se non fosse una lucida e cinica pratica per la prosecuzione di uno schema perfettamente disegnato e regolato.

In chiusura, provo a prevenire una possibile obiezione. “Ma se fosse così come sostieni”, mi si potrebbe dire, “se tutto ciò davvero avvenisse in spregio della democrazia, allora sarebbe un abuso e perciò illegale”. È un abuso, di un potere costituito che si erge a costituente, come detto, e nei fatti muta in corsa il regime democratico in una sorta di neoautoritarismo elitario, ma è legale. E lo è in quanto la sospensione della democrazia e la sua sostituzione con il nuovo regime, avviene perché quelli chiamati con la loro elezione a rappresentarla e praticarla, hanno rinunciato a farlo.

Come tutte le “rivoluzioni passive” (la categoria è gramsciana), operate dalle élites a scapito delle popolazioni, anche quella che stiamo vivendo è perfettamente “legale”, dato che avviene nel solco delle leggi che quelle stesse élites scrivono, discutono ed approvano. Come un’antica regina assira, anche la moderna politica istituzionalizzata ha fatto “licito in sua legge”, per dirla con le parole dell’Alighieri, la propria volontà di sopravvivenza, travestita da governabilità, e cambiato, stravolgendola e limitandola fino alla sospensione di fatto, la natura stessa del regime democratico e delle sue regole.

Tutto questo, ovviamente, senza il minimo coinvolgimento concreto dei cittadini, che, infatti, sempre più spesso rinunciano a partecipare e prendere parte ad un gioco che percepiscono sempre più vuoto ed inutile (tanto, “non ci sono alternative”; non per quelle strade, almeno), astenendosi o cercando di praticare e mettere in piedi strade diverse e nuove.

Fino a quando tutta l’impalcatura della democrazia formale rappresentata come rappresentativa reggerà? E cosa succederà qualora qualcuno dovesse, come il bimbo della fiaba di Andersen, urlare a tutti la verità del re nudo? Cosa accadrà alla rottura dell’incantesimo che, sfidando continuamente Kronos, ancora regge nell’apparente placida accettazione comune?

E che cosa posso saperne io? Chiedetelo a quelli che hanno scritto la storia che stiamo vivendo o agli altri che continuano a raccontarla.

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