L’ultimo sale sulle ferite

Avevo promesso a un caro amico di non scrivere di politica almeno per una settimana. Mi scuso con lui, ma non mantengo la promessa. O meglio, in un certo senso la mantengo eccome.

Perché sto per scrivere di quello che ho visto in questi giorni, e francamente, tutto era, fuorché politica.

Ieri è stato eletto il nuovo presidente della Repubblica: quello di prima. E così, ci siamo risparmiati il saluto ed il ringraziamento al predecessore. Ma proviamo a fare il riepilogo delle puntate precedenti.

Il partito di maggioranza relativa fra i grandi elettori, come era ovvio che fosse, ha avuto l’onere di fare la prima proposta. È chiaro che il capo dello Stato deve essere una personalità con la più ampia condivisione possibile. Ora, in quell’ottica il Pd ha cercato una convergenza con altre forze politiche.

“Ma – si è chiesto – a chi guardare?” Partendo, da subito, con la domanda sbagliata, che invece avrebbe dovuto essere: “per poi fare che cosa?”. Perché, se inizi la legislatura con quella che è passata sotto il nome dell’operazione “Boldrini-Grasso”, con l’idea del governo del cambiamento, allora anche la scelta del presidente della Repubblica le devi inserire là dentro. Oppure, devi dire: “Contrordine, compagni! Il cambiamento non si può fare, perché da altre parti abbiamo avuto solo chiusure, e quindi si fa la larga intesa istituzionale”. Che, sul piano del metodo, è un percorso corretto; ma lo devi sostenere e spiegare (che Quirinale e Governo fossero partite distinte, non era credibile nemmeno dagli alunni dell’asilo “Mariuccia”).

Invece, parlando di cambiamento, si è fatto scegliere il candidato al principe della Restaurazione, e, ironia da commedia greca, lo si è annunciato anche come una grande sorpresa: Franco Marini. Su quello il partito si è spaccato; e giustamente, visto che si era parlato di cambiamento. Molto ha inciso, poi, il fatto che il M5S, fino al giorno prima irremovibile, avesse lasciato intravedere uno spiraglio di collaborazione, candidando una figura stimata da tutti e rappresentativa della migliore sinistra come Stefano Rodotà. Alla prima votazione, s’è assistito ad una macelleria che ha distrutto entrambi i candidati alla presidenza. Perché Marini è uscito a brandelli, e con lui il Pd, ma per Rodotà si sono chiuse tutte le porte del Quirinale: insistere sul professore è stato accanimento politico da parte di Grillo per lucrare interessi elettorali.

Chiarendo subito, io avrei provato la convergenza su Rodotà e lo avrei votato fin dal primo momento, anche convinto da una possibile apertura dei grillini. Ma, per come poi s’erano messe le cose, non avrei votato Rodotà dal pomeriggio di giovedì perché sarebbe stato inutile. E avrei, alla luce di quanto accaduto in seguito, anch’io sbagliato a fidarmi di chi, un minuto dopo l’elezione democraticamente ineccepibile del capo dello Stato, lanciava la “marcia su Roma” in minore, con tanto di retromarcia alla prima telefonata dell’ultimo dei comandi di stazione, ché le rivoluzioni in Italia si fanno solo col permesso dei Carabinieri (se Orfini non se la prende che cito Longanesi e se Orfini sa chi sia Longanesi. Un aiutino, Matteo: non è uno degli evangelisti).

Soprattutto, a rendere completa la rappresentazione, in quelle ore (e ancora oggi, per la precisione) abbiamo assistito a forme strane di isteria collettiva sul nome del presidente della Repubblica, con Rodotà divenuto icona pop (alla fine se n’è accorto anche lui; buongiorno professore) e presidi davanti alla Camera che ricordavano quelli nei pressi della casa del delitto di Avetrana o all’Isola del Giglio, animati più dalla voglia di dire “io c’ero” che dalla consapevolezza di quanto stesse accadendo. Ma tant’è, e la democrazia è anche quella roba lì.

Il nome di Marini, inoltre, ha scatenato l’inferno nella base del Pd. I Giovani Democratici hanno occupato le sedi, i tesserati (quanti?) hanno bruciato le tessere, gli elettori han urlato di non votarlo più (l’avevano fatto prima?). Una tempesta perfetta. A quel punto, non avendolo fatto prima, non si poteva far convergere il partito su Rodotà. L’ottimo professore sarebbe divenuto il ripiego d’un indigesto Marini, e l’operazione sarebbe parsa una resa. Bersani ha proposto quindi l’unico nome possibile per tenere unito il Pd: Romano Prodi.

Sì, tenere unito il partito in un mondo normale. Nel Paese che ci è toccato in sorte, invece, quel nome non è passato, e con lui è trapassato il Pd, almeno nella forma e nella composizione conosciuta fino ad oggi. Il M5S, invece, avrebbe potuto cogliere l’occasione e contribuire a relegare nell’angolo Berlusconi, votando Prodi e chiedendo, per questo appoggio, una composizione di governo e un programma che desse davvero il segno del cambiamento di cui loro si facevano alfieri. Invece no, hanno continuato ad usare Rodotà come randello per spingere il Pd all’accordo col Pdl, perseguendo una forma gattopardesca di controrivoluzione, nella quale giocare il ruolo dell’anima bella, dura e pura.

Alla non riuscita di Prodi, Nemesi s’è presa la rivincita, come sempre. Il Pd, che si era diviso e lacerato sul nome di Marini per la paura di una larga intesa, s’è unito nel nome di Giorgio Napolitano con la promessa di una larga intesa. E tutto questo, in appena 48 ore e senza nemmeno l’occupazione di un gazebo delle primarie. Napolitano (credo che a questo punto sia corretto chiamarlo Re Giorgio II, visto che succede a sé stesso; e poi nelle curiose monarchie italiche, altre volte il primo re s’è chiamato secondo) è eletto con la totalità dei voti di Pd, Pdl e Scelta Civica (le defezioni, contando le schede, stanno sulle dita delle mani).

Finita? Ma che! Venti minuti dopo, Nostra Signora dell’Ipocrisia ha chiesto atto di genuflessione, e molti parlamentari di sinistra già si lanciavano in distinguo sulle larghe intese per il governo.

Scusate, in che senso? Ma non avete votato Napolitano proprio per questo? Era dal 25 febbraio che quello lì parlava di “corresponsabilità”, “compromesso”, “larga intesa”. Non l’avete sentito? Quando son circolate le “ansa” con la possibile accettazione della ricandidatura di Napolitano, tutti hanno dato per scontato il governissimo. Dai giornali alle tv ai social network (anch’io mi son divertito a ipotizzare l’incarico ad Amato, con D’Alema agli esteri), chiunque ha cominciato a parlare di “inciucio fatto”. Di più. Lo stesso Napolitano, ha dichiarato, prima del voto dei grandi elettori, di aver accettato la candidatura grazie alla convergenza delle forze politiche che gliel’avevano proposta sulla necessità di dare un governo al Paese. E nel primo saluto dopo l’elezione, ha voluto ricordare a tutti il dovere del rispetto delle responsabilità assunte. Ed ha ragione.

Votando Napolitano, si è preso il pacchetto completo. Non è che poi dopo qualcuno se ne esce a dire: “io il governo Amato non lo voto, perché c’è D’Alema o Alfano o Monti”. Perché che il governo sarà così (indipendentemente dai nomi) lo sapevamo dal pomeriggio di ieri, dal momento della candidatura di Napolitano. L’indipendenza di mandato sì, l’incoerenza ipocrita o interessata no, vi prego.

Ma le prese di distanza son già partite. Vorrei ascoltare le spiegazioni, però. Come si può votare al pomeriggio Napolitano e alla sera dire: “mai un accordo col Pdl”. Ma è Napolitano quell’accordo. Votare Napolitano è votare il governo delle larghe intese. Come si può scrivere quel nome sulla scheda e poi dire: “mai”? Non lo si era capito? Ma (a parte che tale motivazione comporterebbe la condanna per direttissima dalla corte del paese di Acchiappacitrulli – e non a caso ritengo Pinocchio il libro più spietatamente preciso sul costume degli italiani), se è così, se non lo si è capito, quantomeno qualcuno ha sbagliato mestiere. Perché c’è almeno coerenza, per quanto squallidamente interessata, in chi ha votato Marini, non ha votato Prodi, ed ha votato Napolitano. Ma, diamine, scegliete e assumetevi la responsabilità della scelta.

Non meno curioso è l’atteggiamento di quelli che prima hanno votato Napolitano e poi, ma davvero alcuni minuti dopo, hanno condiviso il giudizio di Fabrizio Barca, ritenendo un errore la richiesta a Napolitano, soprattutto nell’ottica delle larghe intese e dell’apertura a Pdl e “montiani” (gioverebbe ricordare che Barca è tutt’ora ministro di un governo di larghe intese sostenuto dal Pdl e presieduto da Monti). Ora, siccome la credibilità non la vendono alle Coop, come glielo spieghi che hai votato Napolitano, ti sei dissociato dal governissimo (tanto era un voto “no cost”, visto che la fiducia c’era ugualmente e la legislatura non finiva subito) agli elettori a cui andrai a raccontare come si costruisce l’alternativa al centro destra? E come evitare che qualcuno di loro risponda: “ad esempio, non resuscitando Berlusconi in Parlamento, e non dando il placet al governissimo come avete fatto con l’operazione Napolitano bis”?

La strada è in salita, e servono gambe alla Coppi e polmoni alla Bartali per affrontarla; non il dividersi delle tifoserie fra il sostegno all’uno o all’altro dei due ciclisti, ma il pedalare insieme e lo scambio della borraccia lungo i tornanti. Certo, però, servono pure quelli che se ti dicono d’esser disposti a pedalare, devono dimostrare di saperlo fare, e di averlo saputo fare quando ne hanno avuta l’occasione.

Ci siamo fatti del male, e molto. Questo è sicuro. Per fortuna, però, credo che sia finito anche il sale da spargere sulle ferite. Se qualcuno si vuole divertire a cercarne altro, s’accomodi: io, di impressioni pulp, ne ho già avute abbastanza.

E poi, ho una promessa da mantenere, e quindi oggi non parlo di politica (quella di prima era, al massimo, cronaca di costume).

Questa voce è stata pubblicata in libertà di espressione, politica e contrassegnata con , , , , , , , , . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento