Caduta tendenziale del saggio di democrazia

 

Oggi si è conclusa l’esperienza dei Saggi del Presidente. E così, anche questa simulazione è terminata. Perché era una simulazione, giusto? La sceneggiatura ricercata e la plastica messa in atto del far finta di far qualcosa? No? Beh, se non fosse stata una macchietta, allora sarebbe un problema.

Significherebbe, in quel caso, che il Presidente della Repubblica ha davvero incaricato delle persone, individuandole attraverso gli oggettivi criteri dell’intuitu personae, per scrivere delle relazioni sulle cose da fare. Un memorandum per un’azione di governo, magari da consegnare al prossimo inquilino del Quirinale e da questi esser affidato al Governo che nascerà, se nascerà. Vorrebbe dire che il Presidente ha scritto un programma di governo aiutato da saggi scelti da lui in modo insindacabile e concertati con nessuno. Un’azione al di fuori della lettera e dello spirito della Costituzione.

Ma, per nostra fortuna, il Presidente e i Saggi sanno che è solo una simulazione. Lo sanno, e lo dicono. Al di là delle voci d’Onida dal telefon sfuggite, lo dice Napolitano, quando afferma che di quel memorandum lui farà dono al suo successore, che potrà farne quello che vuole: approvarlo e sostenerlo con il prossimo Governo, emendarlo a piacere, o anche cestinarlo del tutto. Come dire, un lavoro inutile per ingannare l’attesa di cominciarne un altro.

Perché il momento di stasi della democrazia che stiamo vivendo, pare tutto una perdita di tempo. Si è votato, ma il risultato elettorale non piace a nessuno. E come tutte le cose che non piacciono, è orfano, non ha padri, non trova responsabili, o è figlio di tutti, che poi è la stessa cosa.

Nel vuoto dell’agire, rimbomba  l’eco dei pensieri e dei ricordi. Il Parlamento è sostanzialmente fermo e impossibilitato a fare qualsiasi cosa. Perché un conto è la democrazia parlamentare, un altro quell’assembleare, e senza un Governo che si faccia carico della proposta politica è vano discettar di proposte di legge.

D’altronde, un Governo ci sarebbe, come c’è un reggitore delle sorti di Palazzo Chigi. Ma è dimissionario, per sua stessa decisione, dalla fine dello scorso anno, e un altro esecutivo non nasce.

E come si potrebbe, d’altro canto, formare un Governo rispettando l’esito del voto. Non solo, infatti, chi ha votato Grillo l’ha fatto per dire che gli altri, tutti gli altri, dovrebbero cambiare mestiere, e quindi ha eletto gente che non vuol nessuno che non siano loro al governo, ma anche ognuno degli elettori che ha scelto uno dei diversi schieramenti l’ha fatto in alternativa a qualsiasi altro. L’elettore del Pdl ha votato Berlusconi per veder il suo voto buono a far di Bersani il capo del Governo? O forse ha votato Bersani per far l’accordo con Berlusconi l’elettore del Pd? La maggioranza, relativa al Senato e assoluta alla Camera, l’avrebbe Bersani. Ma non basta a formare un Governo. E allora? Stallo.

Ogni posizione inciampa su un’altra. I richiami al passato sono seducenti, ma il tempo che viviamo è quello presente. Il Governo della “non sfiducia” nel 1976 (a proposito, quel Governo nacque il 29 luglio, le commissioni in quella legislatura furono costituite il 27 luglio, prima del voto di fiducia; così, giusto per dire), non mi sembra un’ipotesi praticabile. E non perché lo dica io, ma perché l’hanno detto i partiti. Tutti i partiti.

Mi spiego meglio. Nel ’76 i partiti politici presentavano le liste, ma non si sognavano nemmeno di spiegare nel dettaglio quello che avrebbero fatto e, soprattutto, chi sarebbe stato il Presidente del Consiglio dei Ministri. Perché sapevano che una situazione come quella che stiamo vivendo oggi poteva accadere, e, soprattutto, perché vi era maggiore coincidenza fra Costituzione formale e Costituzione materiale. Si sapeva, cioè, che il Governo sarebbe nato in base a quelle che sarebbero state le condizioni del Parlamento dopo il voto, e non si cercava di offrire ciò che non era a disposizione.

Da vent’anni, però, noi viviamo la finzione di un sistema diverso. Quindi, essendo arrivato primo Bersani dovrebbe governare, ma non può, perché gli mancano i numeri al Senato. Allora, il Pdl o qualcun altro dovrebbe sostenerlo in qualche modo. Ma ritorno al punto precedente: possono i partiti che hanno fatto la campagna elettorale per non far andar Bersani al governo (perché in questo caso è doppiamente vero, dato che Bersani correva per vincere, tutti gli altri per non far vincere lui), sostenerlo ora?

Quindi? Troviamo un nome diverso? Si potrebbe. Ma lo dovrebbe fare e sostenere il Pd, che è, come ricordato, maggioranza assoluta alla Camera e relativa al Senato. E mettere in conto, al contempo, la restituzione del contributo chiesto ai cittadini per le “primarie”. Perché in quel caso il problema sarebbe anche la credibilità di un altro sistema che si alimenta della finzione del primo. In Italia, infatti, ci vendono un Governo, ma compriamo un Parlamento, si fa la campagna elettorale per il presidente del Consiglio dei Ministri, ma, nei fatti, non è quello che decidono gli elettori. Da questa finzione, nasce quella di chiedere ai cittadini di una parte di indicare quale sia per loro il candidato preferito per quel ruolo.

Un inciso necessario. Quando qui dico “finzione”, non intendo esprimere un giudizio di valore negativo; mi riferisco al fatto che quella non è la realtà, che nessuno obbliga a rispettare quelle scelte, che sono delle rappresentazioni convenzionali, delle finzioni appunto. Ma è chiaro che nel rispetto di quelle scelte si tempra l’affidabilità della proposta e del progetto politico che si presenta o che si vorrà presentare in futuro.

Quindi, se i gruppi parlamentari del Pd e del centro sinistra oggi se ne uscissero con un nome diverso da quello di Bersani, che hanno proposto e fatto scegliere al loro elettorato, sarebbero loro a dare un giudizio negativo sul valore di quella finzione, di quella rappresentazione convenzionale.

E dunque, sic stantibus rebus, l’unica alternativa, se proprio bisogna farne uno, sarebbe un “Governo di scopo” (perché esistono anche quelli random?) o un “Governo del Presidente” (gli altri, ovviamente, come novelli Napoleone, s’incaricano da soli). E sostenuto da chi? Da tutti? Da alcuni? Da avversari, ex alleati, e fra un po’ di nuovo avversari? E come spiegarlo poi? Ancora un muro.

Ma l’impasse, secondo me, non è dovuta alla difficoltà di far quadrare la maggioranza alle Camere, non è dovuta alla legge elettorale, né alla mancata legittimazione elettorale di una maggioranza nelle Camere. Lo stallo è dovuto al fatto che stanno giungendo al pettine i nodi della mistificazione.

Per troppo tempo si è inseguito il mito della governabilità, della stabilità, del primato dell’esecutivo sul Parlamento; tutte formule di letteratura politica, che nella sostanza, invece, nascondevano l’esatto contrario: la trasformazione e riduzione della politica al ruolo ancillare d’altri poteri.

La continua cessione di sovranità, dai partiti agli eletti, dalle assemblee elettive agli organi esecutivi, dai governi alle regole ed alle istituzioni dei mercati e della finanza, hanno prodotto  una delegittimazione continua ed inarrestabile della politica come pratica della rappresentanza, della composizione dei conflitti, della ricerca degli interessi convergenti e del governo dei processi economici, produttivi e sociali.

La politica è diventata “politicante”, tecnica, spesso sterile esercizio retorico. La discussione sull’istituzione delle commissioni permanenti per far partire i lavori parlamentari, in assenza di un Governo, ad esempio, è stucchevole. Da un lato, perché nulla osta alla loro costituzione, dall’altro, perché a nulla varrebbe la loro formazione. Il potere legislativo del Parlamento è sotto tutela, perché “ce lo impone l’Europa”, “sale lo spread”, “crollano i mercati”, mentre il potere esecutivo del Governo non è pienamente funzionante. Di quali “lavori parlamentari” stiamo parlando?

Le paure connesse ad un ritorno alle urne, sono invece terrificanti. Ma come? Nelle democrazie il voto spaventa? O spaventano gli esiti? Come dire: già si riconosce al popolo la sovranità nominale, si vorrà mica pure fargliela esercitare per davvero?

I Saggi di Napolitano, per finire con l’esempio da cui ho iniziato, sono una limpida dimostrazione della caduta tendenziale del saggio di democrazia in questo Paese, iniziata con la logica del maggioritario, del primato del Governo, della democrazia governante, e proseguita con lo smodato ricorso ai decreti e con l’esecutivo guidato da Monti. “Dunque il Trono piegar dovrà sempre all’Altare”? Sì, ma a quello dei mercati, della finanza e delle sue leggi. A meno che…

A meno che smetta d’esser trono e si pieghi al popolo ed alle sue necessità; smetta di leggere lo stato di salute delle nazioni fra gli indici dello spread, ma impari a scorgerlo nei livelli della disuguaglianza; smetta di contare i punti di Pil, ma capisca e colga quelli necessari a ricomporre il corpo sofferente delle società sempre più povere e deboli; smetta di inseguire i miti della stabilità per i poteri costituiti, lasciando sempre maggiori fasce di popolazione affondare nel dramma della precarietà dell’esistenza e della vita, e diventi potere costituente nel senso inverso a quanto costruito negli ultimi quarant’anni.

Come? Ribaltando lo schema ed i vertici della piramide, e riappropriandosi della forza del governo dei processi con l’autorevolezza che nasce dall’autenticità delle proposte. Finché il metodo sarà finzione per il risultato, il gioco sarà inefficace e scoperto: inefficace per il potere economico, conscio sempre di poter imporre il registro, lo spartito ed il libretto dell’operetta in scena; scoperto dal corpo sociale ed elettorale, che vedrà, in quel reiterarsi di pratiche e riti, vuoti simulacri di processi non più capaci di incidere sulla realtà delle cose e sui rapporti di forza che regolano il mondo.

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