Mettere sotto controllo l’infezione, non i potenziali infetti

L’altra sera stavo leggendo il breve saggio di Bernard-Henri Lévy (Il virus che rende folli, edizioni La nave di Teseo, 2020), e mi sono tornate in mente le parole di Byung–Chul Han, scritte in un articolo pubblicato da Avvenire qualche mese fa, all’inizio della pandemia. Allora poteva sembrare solamente una suggestione, come le tante che non in pochi abbiamo avuto, dovute forse più a passate letture di Foucault che non alla situazione che stavano davvero vivendo. Oggi tutto ha contorni decisamente più definiti, e se non pienamente, quelle sensazioni non sono state così lontane da quanto poi visto.

No, nessuna dittatura si è formata nei regimi democratici, e chi ha usato parole simili non sa di preciso cos’abbia detto (o magari sì, ma con fini che s’è premurato di non svelare). È però innegabile che il controllo, se non come meccanismo effettivamente dispiegato quanto come pulsione sempre meno tenuta a freno, è diventata una dimensione più pervasiva nelle nostre vite quotidiane. Quello esercitato dal potere, certo, in modo verticale e unidirezionale, e quello più pervasivo e diffuso, orizzontale e, potremmo dire, pluridirezionale e ambivalente, del simile sul suo simile. E in questo ho ravvisato spesso una sorta di morboso piacere, che mi ha decisamente spaventato.

Reazioni immediate “alla cinese”, se mi si passa la semplificazione, sono state la cifra anche in Paesi che per storia e cultura, senza risalire fino alle Termopili, a quel modello di gestione dello Stato e dell’autorità dovrebbero essere più lontane. Eppure, il modello è stato quello, anche se in gradazioni differenti e con metodi di coercizione decisamente, imparagonabilmente, più tenui e gentili.

Persino l’individuazione dei nemici e dei “disfattisti”, nella lotta contro la pandemia, mi intimorisce. E pure qui, non lo Stato se n’è fatto carico, ma ciascuno per suo conto. Il “no-mask”, il negazionista, ora il contrario a vaccinarsi; ma di cosa parlate? Esistono davvero? Realmente in un numero significativo e tale da mettere a repentaglio la collettività? Di casi di gente contraria a indossare la mascherina quando obbligata ne abbiamo saputi in numero così esiguo che quasi ognuno di questi è diventato notizia. I negazionisti han provato a fare addirittura una manifestazione, ed erano meno di quanti esperti ne parlano in tv tutte le sere, in studi decisamente più piccoli e affollati di una piazza. E alle vaccinazioni, chi è che se ne è concretamente sottratto opponendo un rifiuto, dato che quasi a nessuno è stato già chiesto di farle? E non rischia di esser oggi, al contrario, un segno e un simbolo di privilegio il poter esibire l’avvenuta somministrazione nel proprio braccio? Non potrebbe essere vista come offesa quell’ostentazione, da chi vorrebbe farlo domani, ma non può perché non gli è data la possibilità dalle regole che lo stesso sistema sanitario che ne incentiva la diffusione si è dato? Soprattutto se quella somministrazione, per alcune visioni, diventa privilegio di liberazione dagli impedimenti a cui la lotta al contagio conduce, mentre ancora non è offetta a tutti.

Nessuna risposta, da parte mia, ma tant’è domande e i soliti, vecchi dubbi.

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