«On June 22nd, in the baking heat of a praking lot a few miles inland from Delaware’s beaches, several dozen poultry workers, many of them Black or Latino, gathered to decry the conditions at a local poultry plant owned by one of Presidente Donald Trump’s biggest campaign contributors. “We’re here for a reason thet is atrocious”, Nelson Hill, an oggicial with the United Food and Commercial Workers International Union, told the small but boisterous crowd, wich included top Democratic officials from the state, among them Senator Chris Coons. The union, part of the A.F.L. – C.I.O., represent some 1.3 milion laborers in poultry-processing and meatpacking plants, as well as workers in grocery members, many defined as “essential” workers – without the option of stayng home – have been hit extraordinarily hard by the coronavirus. The union estimated that nearly thirty thousand of its workers in the food and health-care sectors have contracted COVID-19, and that two undred and thirty-height of those have died».
Le vacanze, in fondo, servono anche a recuperare arretrati di lettura. Tra questi, alcuni numeri del New Yorker che ho infilato in valigia e mi sono portato nei miei dolci giorni lucani. Su quello del 20 luglio, il bel reportartage di Jane Mayer su quanto e come Trump stia aiutando i titani della filiera della carne a rimuovere le pur blande protezioni per i lavoratori proprio sfruttando la pandemia, giustamente intitolato Back to the jungle, mi ha fatto molto riflettere. E mi è capitato di leggerlo negli stessi giorni in cui si leggevano scempiaggini dei campioni, fino a ieri, della sinistra liberal contro lo smart-working. A onor del vero, però, va detto che le scempiaggini le si leggevano anche nelle repliche a quelle parole, soprattutto in quanti opponevano quale certezza sulla bontà del lavoro a distanza proprio il rischio, uscendo per recarsi in ufficio, di poter contrarre la malattia. Giusto. E gli altri, però?
Se uscendo per andare a lavoro si rischia la salute e la vita, allora le rischiano tutti. Io sono stato del tutto e sono ancora parzialmente in telelavoro. Mia moglie, insegnante, ha lavorato anche’ella da casa. Così, abbiamo avuto modo di poter contemporaneamente prenderci cura del nostro unico figlio evitando di uscire di casa che, stando alla tesi poc’anzi esposta, rappresentava in sé il rischio. Bene. E la madre single cassiera al supermercato? Tutti i giorni ha dovuto e deve uscire per recarsi sul posto di lavoro, proprio perché, come i lavoratori della filiera della carne americana, lavoratrice «essenziale» senza possibilità di stare a casa. Contestualmente, ha probabilmente dovuto chiedere ai suoi genitori di guardare i propri figli o passare da loro a lasciarglieli, tornare a riprenderli e magari passare agli anziani il virus contratto perché non poteva in alcun modo fare a meno di quel salario più basso del mio, rischiando al contempo persino la denuncia per violazione delle regole del lockdown da qualche hooligans del non uscire e cheerleaders dello stare in casa, spiandola uscire con i bimbi al mattino o spiando i nonni andar via alla sera, nella pandemia di delazione che ci ha invasi in questi mesi.
Ecco, alla luce di tutto questo, non so se siano più cinici i critici delle forme di lavoro agile o i beneficiari di queste a stipendio pieno, incuranti delle difficoltà economiche degli altri e dei rischi che, per loro stessa ammissione, quanti nemmeno rientrano nelle mielose categorie degli eroi da social e che hanno al contempo permesso la produzione, la distribuzione e la vendita, quando non la consegna a casa, di quegli stessi generi necessari a sfoggiare le nostra competenze culinarie o conoscenze enogastronomiche su Instagram.