«It’s about all the unseen shit»

È davvero bello, e interessante, il reportage da Minneapolis che ha fatto Luke Mogelson sul New Yorker dello scorso 22 giugno, dopo la morte di George Floyd – fermato e ucciso da un agente di polizia chiamato per un presunto spaccio di una banconota falsa da 20 $, di questo parliamo – e i fatti che ne sono seguiti. Duro e forte fin dal titolo, The Uprising, che già la dice lunga su quello che lì, nel Minnesota, è accaduto. «Rivolta», come altro chiamarla? Ma spinta, sostenuta e animata da cosa? E perché? Anche per rispondere a queste domande, mi servo dell’articolo di Mogelson.

La firma del magazine newyorkese ci dice che tra la Trentottesima strada e Chicago avenue, nella zona sud di Minneapolis, si sono da anni concentrate le famiglie afro-americane, dopo che, agli inizi del XX secolo, delle vere e proprie alleanze anti-neri hanno impedito (quando non letteralmente proibito) loro di acquistare o affittare case in altre zone. In quel pezzo di città, ognuno di quelli con cui il giornalista ha parlato, «viewed the police as an alien force of costant menace and harassment». Se la polizia è vista da un’intera comunità in quel modo, something is rotten. L’elenco degli abusi e delle brutalità di agenti e ufficiali di Minneapolis contro la popolazione di colore è lungo e triste. Ma ancor più triste e emblematico è quello che ancora Mogelson ci racconta, dopo averci detto di quei soprusi e crimdini: «The only Minneapolis officier in recent memory to have been sentenced to jail for killing someone is Mohamed Noor, a black man, who shot Justine Damond, a white woman».

Per questo, the uprising. Come spiega in due frasi Simone Hunter, una ragazza intervistata in quell’articolo, fra i primi a dar corso alle proteste, picchiata e respinta dalla polizia durante le manifestazioni, ma sempre in strada a urlare le proprie ragioni,col linguaggio duro degli adolescenti, reso più aggressivo dal vissuto personale, e meglio di quanto anni di indagini e analisi possano fare: «It’s not just about George Floyd. It’s about all the unseen shit, where we don’t have the video».

Nell’estate del ’65, Lyndon B. Johnson firmò il Voting Right Act, per rendere davvero efficace il suffragio universale anche in quei luoghi dove ai neri, di fatto, era impedito di votare. Cinque giorni dopo quella firma, esplosero gli scontri tra la comunità nera di Watts, in Illinois, e la polizia. L’allora presidente si chiese (e incaricò di trovare le risposte alle sue domande una commissione d’inchiesta nazionale presieduta proprio dal governatore dell’Illinois): «What happened? Why did it happen? What can be done to prevent it from happening again and again?». L’attuale inquilino della Casa Bianca credo sia incapace di farsi domande, per non dire di cercare risposte. Ma spero che qualcuno, pure, se non soprattutto, fra chi si candida a sostituirlo, interrogativi come quelli di Johnson se li ponga. E credo anche che, per rispondervi come si deve, senza retorica e lontano da soluzioni perfette solo sulla carta, chiedere a persone come Simone Hunter possa esser interessante e foriero di possibili risultati positivi: cos’è accaduto? Perché è successo? Cosa si può fare perché non capiti ancora e ancora?

E con questo, sono duemila e uno gli articoli pubblicati su Filopolitica. Un periodo di vacanza, al blog e al suo autore, non può che giovare. Buona estate, e a presto.

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