Di quelle bandiere con cui non voglio giocare

Sarà perché non saprei a quale guardare, ma mi scalda poco l’idea di patria. Il mio bisnonno, che nacque già italiano al contrario di suo padre, fatto tale solo in età adulta, ne scoprì una tra l’Hudson e l’East River, e tante mie genti l’han trovate fra valli svizzere e foreste germaniche. Un altro avo con migliaia di conterranei difese quella col tricolore sulle cime delle Carniche e delle Giulie, per dare ai propri figli e nipoti la possibilità d’esser chiamati «terroni» nelle piane sottostanti ai loro versanti meridionali. Io stesso sono nato a un migliaio di chilometri dai cieli sotto cui vivo e mio figlio a dieci volte tanto.

Forse è per questo, quindi, fatto sta che non mi appassionano i tanti inviti a difendere i prodotti nazionali, a consumi patriottici, che siano essi gastronomici, industriali o turistici. Inoltre, lo ritengo un invito vuoto, oltre che tecnicamente non possibile, vista la mancanza di risorse sufficienti. Soprattutto, in una logica siffatta, non capisco cosa ci guadagnerebbe l’Italia nel complesso. Se quella dell’acquistare prodotti della propria nazione diventasse regola, non credete che lo farebbero anche gli altri? Qualcuno pensa davvero che un Paese possa chiudersi autarchicamente mentre gli altri continuerebbero a comprare quello che produce, a investirvi, a visitarlo? Ne dubito; se io compro italiano perché italiano, per quale motivo il tedesco, il cinese, lo statunitense dovrebbe spender soldi per il made in Italy? Il fatto, però, è che nell’ultimo trentennio, tranne che per i primissimi anni ’90 – prima di Maastricht, per capirci, altro che «è tutta colpa dell’UE» – e per il periodo fra il 2004 e il 2011 – in sostanza, ed eccetto per una parentesi di una ventina di mesi, nel periodo in cui i “sovranisti” di oggi erano maggioranza, giusto per amore di memoria –, la bilancia commerciale italiana è sempre stata positiva. Cioè, gli altri hanno comprato e comprano qui più di quanto da qui si sia comprato e si compri dagli altri. Sicuri che l’autarchia 2.0 sia la strada giusta?

Dirò di più: è proprio la contrapposizione, la trasposizione della guerra su mezzi commerciali, per parafrasare il generale prussiano, che non mi convince. Io non voglio sconfiggere nessuno, proprio perché non voglio che nessuno mi sconfigga. Il commercio è scambio, non conflitto. E se mi permettete un sconfinamento nel linguaggio aulico, è la fottuta concorrenza che ci sta fottendo.

Infine, un’altra cosa. In Italia, i “sovranisti” continuano a ripetere che, con le sole forze nazionali e contro tutti, si riuscirebbe a rendere fiorentissima l’economia e solidissimo il cosiddetto «sistema Paese».  Davvero? A me pare un po’ come la tesi di certo neo-borbonismo revanscista, per cui si spiega di quanto il Regno di Napoli fosse ricco, attivo e produttivo, prima dell’arrivo dei cattivi sabaudi, e che avrebbe potuto facilmente soverchiare il piccolo Regno di Sardegna in tutti i campi in ogni occasione. Se così fosse stato, però, non credete che questo avrebbe sbaragliato in un attimo quegli avversari? Non sarebbero stati Ferdinando e Francesco e non Carlo Alberto e Vittorio Emanuele i protagonisti italiani del XIX secolo? E qui e ora, se fosse questo Paese davvero così capace per uomini e imbattibile per mezzi, non guiderebbe esso le dinamiche che invece, come gli stessi patrioti in cassœula, alla vaccinara o allo scoglio dicono, subisce?

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