Ho visto sindaci urlare da balconi virtuali con le mani sui fianchi contro reprobi vecchietti impenitenti della briscola, e nemmeno un assessore fiatare dinanzi a decine di persone in coda per l’estremo saluto al feretro d’un congiunto di nota famiglia messinese. Carabinieri inseguire goffamente, quanto vanamente e a rischio di porre in ridicolo l’uniforme vestita, solitari corridori su spiagge deserte, e non un vigile chieder conto al ministro dell’assembramento tra loro, non con lui, di quanti lo accompagnavano nella diretta tv. Elicotteri a caccia di cuochi di costine sui tetti, motovedette in dissuasione di imperterriti bagnanti, droni per la videosorveglianza dei parchi pubblici da criminali assalti di possibili uomini con cane o signore con passeggino, e neanche un poliziotto a piede dire agli invitati alla festa di autocelebrazione dei governanti costruttori di ospedali poco efficaci: «signori, non vi sembra che qui si sia un po’ in troppi e in troppo poco spazio? Prego, circolare».
Ancora, un dispiego di mezzi degno della cattura di un latitante di mafia disposto per rincorrere isolati frequentatori di bagnasciuga in favore delle telecamere delle trasmissioni del pomeriggio e controlli con immagini da film di fantascienza in ambiente marziano resisi “indispensabili” al fermo per contravvenzione di un unico cittadino che più distanziato da altri era difficile immaginare. Più di tutto il resto, mi ha impressionato quella sensazione di gusto eccessivo avvertita nella persecuzione dei rei dell’uscita di casa, espressa nel livore di chi, da dietro le finestre, chiama la polizia per i due all’angolo della strada che, da un marciapiedi all’altro, si salutano e si chiedono come vada la vita da reclusi, o nell’artatamente preoccupata espressione della conduttrice televisiva che stigmatizza il tenero tenersi per mano di una coppia in strada, come, e peggio, nel tutore dell’ordine che interrompe una messa con una persona ogni 30 metri quadrati e spiega ai presenti a cui chiede le generalità che il suo «è un avvertimento», parola che su una divisa fa un cattivo rumore, nelle multe al rider che consegna le pizze per campare, nell’inflessibilità protocollare che eleva sanzione a un padre e una madre che accompagnano in ospedale la figlia di 8 anni malata di leucemia.
E potrei continuare, ma non ne ho molta voglia. Abbiamo poco da festeggiare, in questa quarantena che, se di certo non finisce, un poco innegabilmente s’allenta. Non ne hanno per nulla quelli che piangono parenti andati, però il silenzio che s’ode dai terrazzi che non intonano più Azzurro o Pensiero lascia pensare che nemmeno gli altri, quelli che non hanno avuto diretti rapporti ed esperienze con la malattia, siano poi così sollevati da questa “fase 2”, che è poi una “fase 1” più qualcun altro. E il male che abbiamo misurato crescere nella cattiveria montante degli incattiviti in cattività, pronti a pestare un podista o inveire contro bambini alla ricerca di un attimo di serenità fuori dalle mura di casa, per loro sempre più anguste con l’arrivo della primavera, come l’alibi dei provvedimenti del «restate a casa», con l’aggiunta della kafkiana autocertificazione (capace di mutare così velocemente che il povero K. sarebbe finito a processo non per la delazione di qualcuno, né per aver dimenticato sul comodino il prezioso foglio sottoscritto, ma semplicemente per averlo redatto e compilato nella versione superata dalle nuove disposizioni in vigore dalla sera prima alla mattina della sua uscita di casa), di una politica consigliata da una scienza, entrambe senza la capacità di indicare la via per cui si possa uscire dallo stallo in cui si è finiti, non resteranno senza effetti.
Dopotutto, non è per caso che alla cinica crudeltà dei rimedi adottati per contrastare l’epidemia di Cecità, e al putridume che dal fondo della coscienza collettiva contribuirono a tirare in superficie, Saramago abbia fatto seguire il distacco civile, tutt’altro che estemporaneo e nient’affatto superficiale, del Saggio sulla lucidità.