Il via al decreto è lastricato di autocertificazioni

Scriveva qualche giorno fa su Facebook il mio amico Giampaolo Coriani, giocando col Kafka del Processo: « Qualcuno doveva aver diffamato Josef K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato. Non aveva l’autocertificazione». Gli ho risposto, nei fatti un po’ sorpreso dall’ennesima release del modello-in-pdf-editabile-e-da-stampare rilasciato dal ministero della speranza: «No, no, figurati se non ce l’aveva. Era solo redatta sul modello vecchio». Da allora, quel modello è cambiato ancora, e non saprei dire oggi quante volte.

La questione dell’autocertificazione, se ci pensate, sta diventando barbina e complicata, quasi più problematica dello stesso divieto di uscire e dei moniti per convincerci «a restare in casa quando viene la sera» e non solo. Al di là di chiedersi se si possa andar fuori o meno per quel motivo e a quell’ora, ci dobbiamo preoccupare di non scordarci il pezzo di carta. E anche di avere quello aggiornato. Allora, via di stampe a modelli su modelli. E chi non ha la stampante? Io l’ho ricopiata a mano su un foglio bianco; basterà? Ma soprattutto, perché? Insomma, all’agente che mi ferma, posso dirlo a voce perché esco; non basta? Se proprio deve verbalizzare qualcosa, posso controfirmare le mie dichiarazioni; è poco? Davvero? Lo si fa per velocizzare i controlli? Seriamente?

In questi giorni di clausura, si ha un po’ più di tempo per i libri. E come al mio amico la letteratura suggeriva l’ironia, a me, ironicamente ma neppure tanto, visto che a destra e a manca si evocano metafore e lessico bellici, suggerisce una possibile spiegazione. Da Vita e destino, di Vasilij Grossman (ed. Adelphi, 2008, pag. 337): «Un’unità di fanteria finisce accerchiata, i soldati non hanno da mangiare. Una squadriglia dell’aviazione riceve l’ordine di paracadutare delle vettovaglie. L’intendenza si rifiuta di consegnare il cibo: abbiamo bisogno che ci firmino la ricevuta, e come fanno a firmarcela se gli lanciamo i sacchi col paracadute. Niente da fare: non se ne facevano una ragione».

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