Siete sicuri che siano decisioni realmente “popolari”?

«Il presidente Obama è apparso sulla scena proprio quando molti membri della mia comunità cominciavano a credere che la meritocrazia americana non fosse fatta per loro. Sappiamo di non essere all’altezza. Lo vediamo tutti i giorni: nei necrologi dei teenager che omettono vistosamente la causa di morte (leggendo tra le righe si capisce che è un’overdose), negli sbandati con cui vediamo le nostre figlie sprecare il proprio tempo. Barack Obama fa risaltare le nostre insicurezze più profonde. È un buon padre mentre molti di noi non lo sono. Indossa abiti adeguati alla sua posizione mentre noi indossiamo la tuta, se siamo così fortunati da avere un lavoro. Sua moglie ci dice che non dovremmo dare da mangiare ai nostri figli certe cose, e noi la odiamo per questo: non perché pensiamo che abbia torto, ma perché sappiamo che ha ragione» (J. D. Vance, Elegia Americana, Garzanti, 2017, pp. 188-189).

Queste parole, J. D. Vance le scriveva e pubblicava prima che Trump diventasse presidente (Hillbilly elegy. A memoir of a family and cultur in crisis, titolo originale dell’opera, esce negli Usa alla fine di giugno del 2016), e a voler leggere bene tutta la sua opera, si sarebbe visto in filigrana il risultato delle presidenziali nell’allora imminente novembre. Ora, anche simbolicamente, il tycoon mantiene le aspettative: è di poche settimane fa, infatti, la notizia che il Dipartimento per l’agricoltura degli Stati Uniti ha nei fatti smontato uno dei vessilli della battaglia contro la cattiva alimentazione dei ragazzi condotta da Michelle Obama, riportando così, nei menù scolastici, hamburger, patatine e magari bibite gassate e zuccherate. Parafrasando Vance, sapevano e sanno che lei è nel giusto, ma non vogliono sentirselo dire, e preferiscono chi dà loro ragione.

È triste, e per due motivi. Il primo, perché una battaglia politica combattuta sulla salute delle coronarie delle giovani generazioni è pessima in sé. Il secondo, è che quella scelta alimentare è spietatamente classista. I figli dei ricchi, a casa saranno curati, e avranno un’alimentazione migliore e più sana. Quelli dei poveri, se pure a scuola mangeranno male, non avranno altri modi per mangiare pietanze e piatti più sani ed equilibrati.

Se la complessità non fosse stata bandita dal discorso pubblico, si potrebbe andare in quelle stesse scuole a chiedere continui incontri con i genitori, e spiegare loro che non c’è nessun intento discriminatorio nel dire che a casa alcuni ragazzi mangiano male. Al contrario, è proprio pensando i menù scolastici in modo più sano che si può dare a quegli stessi studenti meno fortunati qualcosa di meglio, almeno in qualche pasto a settimana.

Così come, sempre se il pensiero complesso fosse contemplato, si potrebbe spiegare alle famiglie che vietare i compiti a casa e dopo le lezioni, cosa che alcuni politici nostrani emuli del trumpismo di potere avrebbero voluto fare, non è certo un favore fatto ai più poveri. Tutt’altro; studiando meno, i figli dei meno abbienti apprenderanno di meno, ché spesso per questi solo attraverso i testi e i percorsi scolastici passa la conoscenza. Per i figli dei ricchi, invece, ci saranno sempre altri libri a casa, altre esperienze da fare, corsi da seguire e altre cose da sapere in modi diversi.

Di nuovo: chi penalizzano di più, queste scelte che paiono “popolari”?

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