Ne parlavo tempo fa con un amico, a proposito del voto in UK. Personalmente, ho una conoscenza diretta solamente di Londra, che non è proprio l’Inghilterra profonda, diciamo. Per questo, a lui che girava durante le elezioni per il nord est inglese, chiedevo se non pensasse che quanto quelle elezioni evidenziavano non fosse il sintomo della rinuncia, annosa, della sinistra e dei suoi partiti a farsi pedagoghi il problema?
La working class, era la sintesi del mio ragionamento, non è progressista per natura. Anzi, come tutte le classi, naturalmente è conservatrice (o almeno lo diventa nei tempi in cui ha qualcosa in più da perdere, oltre alle proprie catene), in quanto, appunto, mira a difendere quel che ha, a conservarlo, prima e più di giocarselo nel sogno dell’avvenire. Ora, difronte alla paura di veder sfumare quel che si pensava eterno, vota chi dice di difenderli da quanti, sempre in quella retorica, li minacciano. Di qui, i voti a Johnson nelle ex roccaforti labour, a Trump nelle contee e negli Stati della Rust Belt, a Salvini nelle Stalingrado dell’operaismo italiano.
Il mio interlocutore, poi, aggiungeva una parte importante al ragionamento, facendomi notare come l’elettorato labourista urbano, londinese e non solo, non fosse quello dei Parioli, del centro storico italiano, alto borghese e chic, ma composto di laureati che faticano a far quadrare i conti fra stipendi e costi della vita e che sono messi alle corde da affitti alle stesse e stremati dalla necessità, per vivere e lavorare, di sottoporsi quotidianamente a trasferimenti lunghissimi. In pratica, una working class anche questa, ma di natura e possibilità diverse da quella del nord.
Un’osservazione che, pensandoci meglio, conferma in un certo senso quanto pensavo. I più giovani e meno organizzati lavoratori cittadini votano oggi con uno spirito progressista maggiormente definito, rispetto ai lavoratori del vecchio mondo fordista che ancora si esprimono nelle urne. Probabilmente perché, di questi, quelli hanno meno da perdere; di sicuro, perché i primi, rispetto ai secondi, non hanno un passato a cui pensare di poter riandare, votando, ancora o per la prima volta, «la sicurezza, la disciplina».
Quello che però temo che sia il problema della sinistra oggi è di natura differente rispetto a quanto spesso si legge a riguardo. Siamo abituati da tempo a sentir dire che le forze progressiste sbagliano nella loro azione politica perché non più capace di intercettare i sentimenti dell’elettorato a cui guardano. Se questo è, lo è solo in parte, e non in quella, a mio giudizio, più importante. Non devono, quei partiti, inseguire istinti e pulsioni pur di guadagnare voti. Se sostituissero la loro narrazione (che va sostituita) con quella dei vari Salvini, Trump, Johnson, potrebbero guadagnare voti (e anche questo è da provare, dato che gli elettori potrebbero scegliere ancora gli originali, più credibili nel fare la faccia feroce), ma non avrebbero comunque raggiunto il loro scopo.
Dire ai lavoratori di un tempo o a quelli di oggi «il mondo non è più come era nei trenta gloriosi per colpa dell’emigrazione incontrollata che ti pone accanto concorrenti scorretti e senza regole: votami, e ridurrò questa aumentando le tue possibilità di stare meglio, di avere miglior accesso ai servizi e ai posti di lavoro», alla destra porta voti. E forse persino alla sinistra, se dovesse attuare un racconto siffatto. Ma il mondo che quelle parole disegnano non è un mondo progressista, anche se a vincere nelle urne fosse il più rosso dei partiti.
Quello che a sinistra non si fa più, che noi non facciamo più e che invece dovremmo ricominciare a fare, è spiegare un mondo diverso, tutti i giorni, in tutti i luoghi. Insegnare che la minaccia non è il povero concorrente con noi, ma chi, della concorrenza, ha fatto sistema. I resistenti operai torinesi e milanesi si scoprirono, negli anni ’50, razzisti contro i terroni accusati di rubar loro il lavoro, così come oggi le roccaforti labour si scoprono chiuse – su base etnica e nazionalistica – ai migranti economici del sud e dell’est Europa. Ma mentre allora i partiti, i sindacati e persino le parrocchie di quella Chiesa votata al sociale si fecero scuola di un racconto diverso, dove l’altro era compagno, e non competitore, noi oggi oscilliamo fra una piena accettazione dello status quo e una mera opposizione di facciata, tipo il “patriocostituzionalismo” che qualcuno adotta come nome di partito.
È un pensiero, quello che accenno in queste righe, ancora solo abbozzato e che avrebbe bisogno di tempo che non ho trovato e di competenze che non ho mai avuto per vedere la luce in forma finita e in bella copia. Però credo che l’operaio leghista di Brembate e quello tory di Blyth Valley, in fondo, votino ed esprimano il loro consenso allo stesso modo per ragioni non diverse. «Ed è una morte un po’ peggiore».