«Ma secondo te, si sta davvero così male come dicono, in Corea del Nord? O non è tutta e solo propaganda, tipo quella che per anni ci ha disegnato l’Est Europa come un posto buio e ai limiti della vivibilità, mentre oggi scopriamo fenomeni quali la ostalgie da parte di quelli che lì hanno vissuto? Non potrebbe essere il frutto di un racconto interessato, e spinto da Stati Uniti e Corea del Sud?». Potrebbe, per carità; ma ne dubito.
Non so, forse perché a conoscenza dei miei sentimenti per Seul, o perché immaginava che esserci stato dappresso desse qualche conoscenza migliore su quanto accade a nord del 38° parallelo in quella penisola, un mio amico qualche giorno fa al bar mi ha fatto quella domanda. Ora, io di quello che succede a Pyongyang ne so quanto se ne può leggere in giro, e aver visto dai binocoli della DMZ il pennone di Kijŏng-dong non dà molte informazioni a riguardo. Però, un’idea me la sono fatta partendo da una considerazione semplice, direi naturale, per me che di razza migrante son sempre stato: se nessuno smania per attraversare con l’alba a illuminare da destra il “ponte del non ritorno” (che si chiama così perché nemmeno i prigionieri nordcoreani volevano la liberazione, se il prezzo era il ritorno sotto il regime dei Kim), una ragione dovrà pur esserci. Così come per il fatto che spesso, e in tanti, provano a fare il contrario.
È un po’ quello che ho risposto al mio amico, anche ricordandogli ciò che succedeva in questa parte del mondo, all’epoca delle frontiere in filo spinato e del muro berlinese: non ricordo nessuno saltarle a rischio di prendersi una fucilata alle spalle, oltre alla luce del tramonto che avrebbe, nel farlo da qui a lì, allungato l’ombra dell’ipotetico saltatore. Nell’altro verso, invece, solo le pallottole del patto di Varsavia e la fantasia di quanti vi si cimentavano ponevano un limite ai tentativi.
Poi, per carità, qualche intellettuale occidentale dissidente che preferiva la luce di Alexanderplatz alle ombre del Tiergarten c’era di certo ai tempi di Ulbricht o di Honecker, ma i comuni tedeschi della Ddr non se lo fecero dire due volte, quando l’Ungheria aprì la frontiera con l’Austria, che di là potevano girare a frotte con le loro Trabant per raggiungere quell’Ovest di cui parlavano la lingua.