Pochi piangerebbero per l’Erasmus, in un povero pub di Newcastle

Come il razzismo culturale in Bandiera bianca evitava a Battiato la pena di alcune trasmissioni televisive, il mio pregiudizio per fortuna non mi fa appassionare al dibattito social, nemmeno quando sono amici reali e veri quelli che leggo discorrerne fra status e commenti. A volte, però (e questa è una di quelle), mi riservo il diritto di parlarne da queste colonne, cercando di dire il mio punto di vista al riparo dalla tediante necessità di doverlo spiegare oltre in necessario.

Uno dei casi che ha visto, nei giorni scorsi, il fiorire di commenti e censure è stato quello del presunto abbandono dell’Erasmus da parte della Gran Bretagna. Presunto, perché, allo stato attuale, nulla cambia; quello che è successo, invece, è stata solo la bocciatura di un emendamento lib-dem che voleva inserire la promessa della continuazione del programma di interscambio per studenti universitari all’interno della legge sull’uscita dall’Ue. A scanso di equivoci, dico subito che per me quel meccanismo di collaborazione accademica è un programma importante, e che sarebbe un peccato che qualche governo lo azzoppasse. Ma l’attenzione che sulla sua presunta abolizione si è riversata da parte di certi commentatori è pure l’indice di un qualcosa di diverso, nel modo in cui le istituzioni europee e il loro funzionamento sono viste. Con le parole di un europeista di sicura fede, quale Enrico Letta, da un’intervista rilascia al Corriere ben tre anni orsono: «Erasmus è sicuramente un’esperienza felice, ma è anche il simbolo dell’elitismo dell’Europa. Questo è un concetto centrale nel dibattito europeo di oggi, perché l’Unione viene vista da larghe fasce di popolazione come un’istituzione fredda, che parla solo ai vincenti, ai cosmopoliti, a coloro che sono contenti della globalizzazione perché hanno studiato, viaggiano, conoscono altre lingue. Quelli che hanno fatto l’Erasmus». Appunto.

Ritengo giuste le preoccupazioni di quelli che le hanno espresse in ragione di un ipotetico, futuro abbandono di quel progetto d’integrazione e scambio culturale da parte di Londra. Al contempo, esse nulla sposteranno nei sentimenti verso l’Unione nutriti dall’autista di Newcastle (prima o poi dovrò vederlo, il film di Ken Loach) o dall’operaio di Monfalcone. Anzi, c’è il rischio concreto che, preoccupandosi di ciò, si spinga quegli stessi attori a sentire ancora più lontana dai loro destini l’Ue, nella quale sentono crescere il numero dei concorrenti, e quindi delle loro difficoltà per poter trovare un posto nel tempo che vivono, al contrario di quanti, capaci e competenti, che sanno le lingue e conoscono il mondo, al crescere delle prospettive vedono aumentare le opportunità.

Ovvio, potreste pensare che il problema sia solo di chi non sa, non voglia o non riesca a cogliere il di più che gli è, in potenza, offerto, ma non fareste nemmeno a voi un ottimo servizio. Se non altro perché, al dunque, anche solo elettorale, questi vi si ritorcerebbero contro, e con tutto il peso e l’inerzia che hanno. Sono quasi convinto, infatti, che non pochi fra loro non solo non si siano preoccupati della lettura allarmista sulla fine dell’Erasmus per l’Uk, ma che, al contrario, un po’ ne abbiano perfino sorriso, prima di confinarla nel cestino delle cose non importanti per il vivere d’ogni giorno.

Vogliamo pensare a un racconto europeo per quanti non l’hanno potuto, saputo o voluto fare quell’Erasmus? Vogliamo provare a spiegare (se così è) perché un’Europa più unita serva a loro non meno che agli studenti che hanno la possibilità di trascorrere un anno a Cambridge? Vogliamo provare a dire pure a questi che se ne sentono esclusi che l’Ue è casa loro (se lo è), e che conviene che sia forte e coesa, oppure ci basta continuare, dall’alto dei nostri studi e di quello che abbiamo – crediamo d’aver – imparato sui libri o girando liberamente per il continente, a ritenerli bifolchi ignoranti, incapaci di capire le dinamiche complesse e gli scenari complessivi?

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