«La natura, di per sé, ci suggerisce solo di nutrirci, riprodurci e fuggire i predatori, e ci consegna a una vita solitaria, povera, pericolosa, brutale, e breve. Unico animale nella cui essenza rientra il supplemento tecnico, l’umano non viene dunque alienato dalla propria essenza a causa delle malefatte della tecnica, ma viene rivelato dalla tecnica: è la tecnica a dirci ciò che noi siamo, ciò che vogliamo. A questo proposito, vale la pena di osservare una circostanza. Nella società borghese, scrive Marx, gli esseri umani, trasformati in protesi delle macchine, sono forzati a ripetere lo stesso gesto privo di significato dieci ore al giorno, sei o magari sette giorni alla settimana, e per tutta la vita. Ma nella società comunista si potrà andare a pesca alla mattina, scrivere saggi critici il pomeriggio, accudire il bestiame alla sera. Non è forse questa la vita che caratterizza la parte del mondo in cui abbiamo la fortuna di vivere, tra viaggi low cost, vite sui social e mobilità lavorativa?».
Ha tanto della provocazione intellettuale questa affermazione di Maurizio Ferraris, nel bello e godibilissimo dialogo con Massimo Cacciari sull’umanesimo, ospitato da Repubblica di martedì scorso. Dopo aver spiegato come i catastrofisti siano esagerati nel loro dipingere di nero ogni innovazione, in quanto, in sostanza, l’umanità di oggi sta decisamente meglio di quella di ieri, il filosofo del nuovo realismo mette nel mirino un’altra questione: a parte le situazioni ai limiti, non è forse vero che oggi alla maggioranza della popolazione in questa parte di mondo è garantita una vita capace di assicurare la soddisfazione dei bisogni primari? E non corrisponde altrettanto a verità il fatto che un’infinità di servizi e beni a basso costo appagano anche le necessità non impellenti? Non possiamo, noi, qui, adesso, destinare molto tempo ai nostri hobby, occuparci del lavoro per una sola parte della nostra giornata traendone comunque di che vivere, e aver addirittura la possibilità di scrivere e farci leggere da chiunque e su qualsiasi argomento? Abbiamo realizzato il sogno marxiano senza nemmeno accorgercene!
In quest’ottica, ovviamente, è una scelta del singolo se il nostro passatempo consiste nel trascorrere ore davanti uno schermo a guardare una partita di calcio o le selezioni per un talent e non dedicarci alla scoperta dei capolavori dell’arte del passato o perderci nelle pagine migliori della letteratura di ogni tempo, così come lo è il fatto che, invece che un saggio di critica teatrale, postiamo sui nostri account foto di teneri gattini e piatti conditi. La possibilità, per fare quelle altre scelte, ci sarebbe data. Ed è così, effettivamente. Ma non accade, e invece che assaporare le gioie del paradiso, viviamo la frustrazione continua in quella che riteniamo una condanna imperitura.
Stando alla dimensione che fino all’alba di questo nuovo mondo ha caratterizzato la storia e la vita degli uomini, non avremmo di che lamentarci, se non nell’attimo, di sicuro in proiezione. Fermatevi un momento a considerare la condizione delle masse bracciantili o degli operai inurbati fino a prima che quella terza rivoluzione industriale dispiegasse i suoi effetti, e saprete di quanto stiate meglio di allora, liberati dalla fatica che spezza le ossa e che, a volte, non da nemmeno di che riempirsi la pancia e sostenere i muscoli che devono farla. Eppure, non ne siamo felici e non ci basta. Perché?
Perché, azzardo, abbiamo scambiato gli ausiliari necessari a incasellare la nostra situazione esistenziale. Se ci definiamo con l’avere, invece che con l’essere, la nostra sarà sempre una corsa alla frustrazione. Servirebbe per questo una formazione lunga, e profonda, se persino uno come Ferraris si spinge a dire, sempre in quella conversazione, «che se anche siamo sostituibili come produttori, siamo indispensabili come consumatori», quasi che questa sola prospettiva bastasse a ripagarci in tutto. Non è così, e temo non lo sarà fino a quando non sapremo in grado di definire differenti orizzonti per quella fame di consumo. Altrimenti, basterebbe dare a tutti un ricco sussidio di cittadinanza per risolvere ogni male del mondo e rendere la vita beata e piena. Pur se mi auguro che un giorno si sia totalmente liberati dalla necessità del lavoro, dubito che, di per sé, questa nuova condizione basterebbe a fare l’uomo nuovo.
Con le parole con cui Cacciari chiude quella conversazione con Ferraris: «Il formidabile processo per cui l’innovazione tecnico-scientifica produce un assetto dei fattori produttivi in ogni settore, a crescente e altissima riduzione del lavoro necessario, è un processo auspicabilissimo, certo. Ma è impossibile considerarlo avulso dal contesto in cui ha luogo. La liberazione dal lavoro necessario era vista, dal romanticismo ai grandi dell’idealismo, fino a Marx e oltre, come l’instaurazione di un “lavoro dello spirito” su scala universale. E non come il regno del tempo libero! Non ha senso parlare di liberazione dal lavoro comandato o dipendente se non nella prospettiva di un “lavoro dello spirito”. La disoccupazione è l’opposto di questo, anche quando venisse retribuita dieci volte il più pagato dei lavori dipendenti. Questo è il dramma attuale: si libera lavoro lasciando l’energia del soggetto senza impiego. La società non è organizzata (e neppure pensata!) per impiegare l’energia che il lavoro liberato possiede. L’etica dominante rimane ancora quella del lavoro comandato, della pena del lavoro. Qui vi è una rivoluzione culturale da compiere. E proprio nel segno di un umanesimo completamente ripensato».