Il solito, schifoso, razzismo

In Lombardia, a una ragazza nata a Foggia una proprietaria rifiuta di affittare casa perché meridionale. A Forlì, una signora siciliana viene insultata dai vicini di casa col troppo volte già sentito «terrona puzzolente». Alla festa di un partito che governa le regioni economicamente più progredite, e fino a qualche settimana fa l’intero Paese, un giornalista viene scacciato in quanto «ebreo». A Cosenza, un energumeno prende a calci un bimbo di origini africane perché, per lui, il piccolo era troppo vicino alla sua bambina. Potrei continuare in questo crescendo di orrori, ma mi fermo qui; il senso credo sia chiaro. Quello che a volte mi lascia ancor più perplesso degli accaduti è il tono con cui se ne parla.

Per esempio, al Gr2 delle 17,30 di mercoledì scorso, ho sentito definire la vicenda della giovane foggiana di cui parlavo prima: «una storia da anni ’50». E perché? Perché «da anni ’50»? Perché la malcapitata è meridionale, come nei cartelli ai portoni della Torino della prima emigrazione? E se fosse stata ebrea, come Gad Lerner a Pontida, sarebbe stata una storia da anni ’30? Se invece di colore, come succede ancora tante, troppe volte, odierna e quotidiana? Purtroppo, invece, è una storia di sempre, anche se, a turno, cambiano i protagonisti; si chiama razzismo. E puzza e fa schifo come le fogne da cui, periodicamente, riemerge.

Può capitare di doverci fare i conti da vittime pure a quelli che si ritengono, inspiegabilmente, per merito nati dalla parte più ricca del mondo e del colore di pelle più aggressivo. E se accade meno è solo perché, a quella fortuna di nascita non di rado è connessa una minore necessità del chiedere, una più bassa probabilità di aver bisogno e doversi spostare dove si sarebbe, per chi già c’è ed è arrivato prima, “diversi”.

Ed è per questo una storia ancor più misera.

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