Mediocri? Magari. Ovvero, aveva ragione il Tristano di Leopardi

«Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che camminava dritto in paese di zoppi. E questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi han fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, così a un tratto, senza altre fatiche preparatorie. Anzi vogliono che il grado al quale è pervenuta la civiltà, e che l’indole del tempo presente e futuro, assolvano essi e loro successori in perpetuo da ogni necessità di sudori e fatiche lunghe per divenire atti alle cose. Mi diceva, pochi giorni sono, un mio amico, uomo di maneggi e di faccende, che anche la mediocrità è divenuta rarissima; quasi tutti sono inetti, quasi tutti insufficienti a quegli uffici o a quegli esercizi a cui necessità o fortuna o elezione gli ha destinati. In ciò mi pare che consista in parte la differenza ch’è da questo agli altri secoli. In tutti gli altri, come in questo, il grande è stato rarissimo; ma negli altri la mediocrità ha tenuto il campo, in questo la nullità» (Giacomo Leopardi, Operette Morali, Dialogo di Tristano e di un amico, ed. Mursia, 1996, pp. 270-271).

L’altissimo poeta scrisse questo dialogo nel 1832, quasi due secoli orsono. Eppure, sembra attualissimo. Anzi, lo è. Leopardi parlava dell’Italia e del suo tempo, ma non sono diversi quelli, l’una e l’altro, in cui viviamo l’oggi. Classi dirigenti divenute tali per sottrazione si muovono sul proscenio della società quasi fossero lì dove sono arrivati davvero perché migliori, e non solamente più scaltri o fortunati per giungervi. Al contrario, le menti migliori del secolo che scorre, le vedi affaccendate nel continuo mantenersi in vita, o distolte dal pensare per scelta di sanità personale, se non per quella perenne costrizione materiale; fattisi di lato non per stringente necessità, quanto per l’indisponibilità a discutere le proprie idee al mercato dell’apprezzamento, in concorrenza con quelli che, non avendone alcuna, dimostrano sempre spiccata e forte convinzione in sé stessi.  

Perché, a essere onesti, forse dobbiamo concordare col Tristano leopardiano in quel che dice subito prima e appena dopo il brano che ho citato: «Gl’individui sono spariti dinanzi alle masse, dicono elegantemente i pensatori moderni. Il che vuol dire ch’è inutile che l’individuo si prenda nessun incomodo, poiché, per qualunque suo merito, né anche quel misero premio della gloria gli resta più da sperare né in vigilia né in sogno. Lasci fare alle masse; le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo composte d’individui, desidero e spero che me lo spieghino gl’intendenti d’individui e di masse, che oggi illuminano il mondo. […] è tale il romore e la confusione, volendo tutti esser tutto, che non si fa nessuna attenzione ai pochi grandi che pure credo che vi sieno; ai quali, nell’immensa moltitudine de’ concorrenti, non è più possibile di aprirsi una via. E così, mentre tutti gli infimi si credono illustri, l’oscurità e la nullità dell’esito diviene il fato comune e degli infimi e de’ sommi» (Ibidem).

E concludeva, il Tistano, con un evviva alle magnificenze del secolo suo.

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