A Prodi che immaginava per ieri, inizio di primavera, fiorire i balconi del Belpaese con vessilli blustellati dell’Unione europea, subito ha risposto il neo patriota (costituzionale, non si dica altro) Fassina, inalberando la bandiera bianca, rossa e verde sul pennone di casa sua. La mia mente è corsa all’agosto del 1914, quando immagino che alla borghesia e alle nobiltà europee non parve vero che da Vienna a Parigi, da Berlino a Londra, su entrambi i lati degli schieramenti bellici, i socialisti votarono per i crediti militari e a favore delle politiche di guerra dei rispettivi governi. Con quel voto, e non poteva essere diversamente, finì pure la II Internazionale e si incamminò, senza resistenze culturali adeguate, il processo di disfacimento della fraternità fra le classi subalterne d’Europa, per l’interesse e l’arricchimento delle élites.
Sinceramente, la difesa del sacro principio della nazione da parte di quelli che si dicono di sinistra non la capisco. Non perché la mia cultura anarchica mi canti continuamente che «nostra patria è il mondo intero» e la mia natura contadina sappia che questa, per noi, sempre «è dove l’erba trema», ma anche perché l’ideologia che ci ha informati, da questa parte del mondo politico, parlava di superare il destino delle nazioni. Se non è troppo di destra per il buon Fassina, fin dal Manifesto del partito comunista si leggeva: «I lavoratori non hanno patria. Non si può togliere loro ciò che non hanno. […] Le divisioni e gli antagonismi nazionali fra i popoli tendono sempre più a scomparire già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà del commercio, con il mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e delle condizioni di vita che ne derivano. Il potere proletario li farà scomparire ancora di più. L’azione comune almeno dei paesi più civilizzati è una delle prime condizioni della sua liberazione. […] Con l’antagonismo delle classi all’interno delle nazioni cade la reciproca ostilità fra le nazioni». Che non è, in fondo, dimenticarsi della propria patria, ma concepirla e sentirla più grande; quanto «il mondo intero», appunto.
Ogni volta, però, che si parla di Unione europea o di rinuncia a pezzi e parti di sovranità nazionale, spunta fuori qualcuno a sinistra che ci spiega come non si possa essere così «rinnegati» al punto da tradire la fede in quella realtà geopolitica che la storia e il momento hanno stabilito con precisi confini e peculiare nome. Non ha senso, almeno non da questa parte della barricata.
Lasciateli pure e senza alcun timore alla destra, i temi e i concetti della nazione e dell’onore dell’appartenenza a un solo luogo e un unico paese: prendetevi tutto il resto, e non sarà poco. Se invece è a un campionato che riducete il mondo, in cui ciascuno sventoli una bandiera contro le altre stabilita solo in ragione del posto dove si è nati, non della classe e della situazione in cui ci si trova, allora è giusto che siate succubi della loro egemonia culturale e ideologica.
E di questa politicamente periate.
Io ho esposto, oltre alla bandiera europea, il tricolore bluverderosso della repubblica partigiana dell’Ossola, mia piccola patria da cui sono lontano, di cui ricorre quest’anno il 75esimo. Ma non per marcare il territorio, per ricordare il senso di quella esperienza.
Per citare Shaw, la cui massima ricordo dai tempi del liceo: Patriotism is your conviction that this country is superior to all others because you were born in it.
Ma Fassinachi non riesce ad arrivarci. È un perdente nato; come molti del resto, a sinistra.