Sovranismo è isolamento

Mi hanno fatto sorridere le parole che Giuseppe Conte ha pronunciato nel suo intervento a Davos. Uno, perché «l’avvocato del popolo» che arringa dal pulpito delle più abbienti fra le élites facoltose del mondo è uno spettacolo insieme comico e curioso. Due, perché dopo aver dato fendenti e stilato colpi di fioretto a destra e a manca, se n’è uscito, «tomo tomo, cacchio cacchio», dicendo che non gli dispiacerebbe se al suo fianco avesse altri, sulla strada delle riforme che con il suo governo e le forze politiche che lo reggono hanno in mente a proposito dei nuovi assetti europei e mondiali.

Ora, non è solo nel fatto che Conte non possa prendere che la sua Weltanschauung sia condivisa nel momento stesso in cui la usa come una clava sulla testa dei suoi possibili partner l’ironia della richiesta. È proprio nelle basi su cui poggia tutto il ragionamento (e la volontà politica ed elettorale) che vi sta dietro che essa trova il suo significato ultimo e, se me lo consentite, banale. Il sovranismo è, e non può essere altrimenti, una pratica di isolamento. Ancor di più se di questo si professa il suo valore universale e necessario per tutte le nazioni del mondo. Se ognuna di esse, infatti, dichiara il proprio first, alla Trump, è ovvio che sarà sola, perché tutte le altre sue potenziali alleanze parleranno quella medesima lingua, relegandola, dal loro punto di vista, nella migliore delle ipotesi in un second mai disponibile.

Il tamburo battuto sulla retorica della patria libera e indipendente suona in modo seducente per i compatrioti. Al tempo stesso, però, rimbomba aggressivo nelle orecchie dei vicini oltre confine. È da sempre così, e difficilmente può funzionare in modo diverso. «L’internazionale sovranista» è un titolo buono per vendere i giornali, a quelli che la temono almeno quanto – se non di più – a quanti vi anelino; ma è un controsenso sul piano logico, e una vera e propria idiozia nella teoria geopolitica e nella pratica delle relazioni fra gli Stati.

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