«Il criterio della verificabilità per le favole non vale. Per sua stessa natura, la narrazione esclude ogni tipo di riflessione e di discussione critica. È frontale e monologica. Va dall’uno verso i molti: in una direzione sola, come la corrente di un fiume mette tutti gli altri in una condizione di passività. Tu racconti e io ti credo. O non ti credo, ma comunque non posso ribattere. Non è previsto. La narrazione non si discute: si accetta o si rifiuta in blocco. Si odia o si ama. Il giudizio è sospeso, vale solo il pregiudizio. C’è poco da stupirsi, allora, se l’esito di questo modo di fare politica è il fronteggiarsi di faziosi schieramenti di seguaci».
Le frasi che ho citato sono di Giuseppe Antonelli (da Volgare eloquenza. Come le parole hanno paralizzato la politica); la narrazione, ormai unico spazio e metodo in cui e di cui vive e si caratterizza la politica odierna, scrive il docente di linguistica, è sempre e solamente «frontale e monologica». Tristemente vero, assolutamente attuale. Oggi quello è il modo, tale il campo. E per chi, come chi scrive, la politica non può esser data se non come confronto e dialogo, altra via non rimane che il farsi da parte. E non è detto che non si stia meglio, dopotutto.
Rinuncia? Mah, non saprei dire. Di certo, poca voglia di perseguire lungo l’asse dell’impegno nei normati canali della partecipazione. Davvero, perché? Con quali motivazioni? Meglio, sì, molto meglio cercare altre strade, vie impervie, magari, poco frequentate, probabilmente, ma non è escluso che possano essere più interessanti e, perché no, appaganti.