Non di rado, mi accusano d’avere una posizione pregiudizialmente oppositiva rispetto alle classi dirigenti. Quasi fosse una sorta di rifiuto dell’autorità o, e non so se meglio o peggio, una specie di resa al plebeismo, quei critici mi incolpano di non dare la giusta misura alle cose che giudico e di cedere spesso a ragionamenti rivoltosi con l’ambizione di darsi orizzonti rivoluzionari. Mi permetto di eccepire: ma quando mai? Se c’è una tendenza nella mia stigmatizzazione dei comportamenti delle élites, al massimo, essa è di natura restauratrice. Per spiegare quello che dico proverò con un esempio.
Nelle settimane scorse, l’imbarazzante scenetta del governo austriaco pronto a mandare i militari al Brennero per respingere, con i carri armati, pochi disperati in cerca di una vita migliore, mi ha fatto tornare in mente la frase conclusiva del Bollettino della Vittoria con cui il generale Armando Diaz comunicò la fine del conflitto per parte italiana: «I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza». In una sola frase, l’alto ufficiale napoletano anticipava le migliaia di pagine che grandi scrittore avrebbero poi dedicato alla finis Austriae. In poche parole, coglieva il senso del mondo che stava cambiando, e lo rendeva immagine fissa e viva. Ecco, se anche oggi le élites fossero capaci di simili voli, io sarei dalla loro parte.
Invece, cos’abbiamo? Pizzicagnoli scambiati per maître à penser solamente perché hanno imbroccato il filone (o il filotto?) buono, fuoricorso pluriennali che giocano a fare gli statisti, sussiegose rappresentanti di una piccola borghesia di provincia che si crede dalla parte giusta perché temporaneamente arrivata, supposti tanto quanto supponenti intellettuali che citano gli autori classici come se ancora ci stessero provando con la compagna del liceo, artisti che sì, insomma, gli ideali, certo, ma poi, in fin dei conti, oh, bisogna pur vendere.
Ecco, se questa è la scena, mi riservo la facoltà di fischiare dalla platea.
La definizione di élite non implica la tutela di un buon grado di mobilità sociale ma è plausibile che in un oligopolio gli “spettacoli” possano risultare miseri.
Il pubblico fa la sua parte anche se non apprezza uno spettacolo, anche a prescindere se abbia potuto avvantaggiarsi degli stessi strumenti che regia e critica hanno avuto a disposizione.
Se per certi aspetti è una fortuna che nello spettacolo non ci si debba conformare necessariamente alle élite (fallacia genetica) non si può certo dire lo stesso dei casi in cui élite producano “pessimi” prodotti apprezzati dal pubblico o “ottimi” prodotti snobbati dal pubblico.
Ammesso, solo per ipotesi, che un qualsivoglia “giudizio di valore” sugli spettacoli possa essere considerato come “oggettivo ed assoluto” come la morale della fiaba di Andersen “I vestiti nuovi dell’imperatore”.