Non son per me le pubblicità

Credo che in nessun caso mi si possa rivolgere l’accusa di “pauperismo”. Ritengo, al contrario, che proprio nella materialità della condizione sociale, e nel suo miglioramento, risieda il principale riscatto delle masse popolari, operaie e contadine, e rivendicando una discendenza da secoli di miseria e difficoltà, sono tutt’altro che propenso a cedere alla rinnegazione dell’importanza dell’avere nella vita di tutti i giorni. Detto ciò, so cosa fa davvero il mio essere e non mi affascina la rincorsa a ottenere di più di quanto mi serva.

Perché credo nella decrescita? Chiamarla così è fuorviante, dato che, come dicevo, per me è mera rinuncia al superfluo, e non mi servivano i libri di Latouche per arrivare a capire quello che già un paio di frammenti di Epicuro o qualche verso di Lucrezio spiegavano da secoli, per tacere della millenaria cultura cafona di cui sono erede. No, il problema, nel mio caso, lo circoscrivo molto più in basso. È l’apparato di cattura dei desideri messo in piedi dal capitalismo, o semplicemente “pubblicità”, a non avermi mai coinvolto. E per la banalissima ragione che spot, manifesti e réclame non parlano a me, né l’hanno mai fatto fin da quando ero bambino.

In tv o sui giornali, da sempre ho visto bimbi bianchissimi, biondi e con gli occhi chiari a cui erano destinati ogni sorta di balocchi e leccornie, come ora vedo uomini eleganti, prestanti e bellissimi arrivare alla soddisfazione di qualunque aspettativa. Li guardo e mi considero, mi paragono, faccio le valutazioni e capisco che, in fondo, tutto quell’assembramento di immagini dice una cosa sola: qualunque merce che lì passa non è per me, non va bene a quelli come me, non è fatta perché io possa averla.

A quel punto, perché desiderarla?

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