Al congresso del Pd, il migliore è Renzi. Ecco perché non mi curo dell’esito

Il Pd, pare, nel prossimo mese di aprile concluderà la fase congressuale che sta vivendo. I candidati, lo sapete di sicuro, sono tre. Renzi, il favorito da tutti i pronostici, sebbene potenzialmente minacciato dagli sconvolgimenti giudiziari delle ultime settimane, Emiliano, che alcuni sondaggi danno per secondo, inspiegabilmente, e Orlando, che può recuperare perché molti ancora credono, e non tocca a me dire se a torto o a ragione, che quel partito possa ancora essere definito “di sinistra”.

Come ho ricordato in altre occasioni, per parafrasare Eduardo De Filippo, io me ne sono andato e sono congressi che non mi riguardano. Ma a mo’ di esercizio intellettuale, provo a dire la mia: se fossi ancora nel Pd, e decidessi di recarmi a votare, fra i tre, sceglierei il segretario dimissionario. Perché? Beh, perché no? Emiliano si candida alla guida di un partito che poco fa accusava di essere diventato quello dei petrolieri e dei banchieri, oltre che dei golfisti, che diceva cose come «sui migranti, Salvini ha ragione» e che ne dice ora altre tipo «sul popolo, sto con Trump», per tacere delle pratiche rivelatorie di conversazioni telefoniche. Orlando rivendica una discontinuità rispetto alla gestione appena finita, come se fosse solo un omonimo di quello che in essa è stato ininterrottamente ministro senza che si ricordino dissensi significativi e di quello che lo è in un governo che, per espressa rivendicazione di chi lo guida, si pone invece con la stessa «in doverosa continuità». Lo so, mi si potrebbe obiettare che lo stesso ex presidente del Consiglio è stato nel partito di Bersani con orizzonti politici differenti rispetto a quelli che poi ha realizzato, certo; ma lui è quello lì, uno che non va in profondità nelle questioni e si limita a surfare sulle proprie contraddizioni per inseguire i traguardi che si pone. È l’attuale ministro della giustizia, al contrario, a precludersi l’uso di quel surf, rivendicando per sé uno stile alternativo da colui che si candida a sfidare, ma che nei fatti osservati per tre anni non s’è visto.  In fin dei conti, Renzi è rimasto se stesso, la migliore incarnazione di ciò che il Pd è diventato. Ed è per questo che non sono più fra quanti saranno chiamati a quella scelta.

Problemi che non mi competono, ripeto, e che ho scelto di abbandonare forse proprio perché vedevo l’approdo a cui conducevano le strade che si erano intraprese. Ricordo quelli che mi spiegavano che bisognava rimanere dentro per incidere sulle cose, e li vedo ora uscire per quelle stesse porte varcate da me. Ascolto quanti ripeto la canzone del “cambiare il partito da dentro”, e magari, fra poco o molto, li vedrò seguire i loro compagni che ora lasciano, a meno di non permettere al partito, come a tanti già accaduto, di cambiare loro dentro.

Ma ripeto, non è un congresso che mi riguardi. Per fortuna.

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