Non accusateli di cavalcare l’invidia sociale, chiedetevi perché ci sia

È scorretta una politica condotta «facendo leva sull’invidia sociale, dicendo ai cittadini delle periferie che quelli in centro avevano ciò che loro non avevano. Così si spacca una comunità, altro che ricucirla». Sono parole dell’ex sindaco del capoluogo piemontese Piero Fassino rivolte alla sua vittoriosa sfidante Chiara Appendino, dette durante la sua prima conferenza stampa da leader dell’opposizione in consiglio comunale.

E sarebbero pure condivisibili, se non fosse che il problema è proprio l’esistenza di quel sentimento di invidia, che non nasce dal nulla, ma da una disparità di condizioni fra diversi strati della società che esiste davvero. Due città diverse e sempre più distanti, una che sta bene e l’altra che se la passa male e rimane ai margini, di cui fin dal 2010 parla l’arcivescovo della città Cesare Nosiglia: «Basterebbe fare un viaggio in tram dal centro ai suoi confini, per rendersi conto delle tante umanità che abitano a Torino». Un tram, come il 3, oggi sdoppiato, che unisce la Collina alle Vallette, e che, da un capo all’altro, sposta l’orizzonte di vita media di un valore superiore ai 50 mesi: 82,1 anni per chi nasce e cresce al sole del benessere, 77,8 per chi vive all’ombra dei palazzoni. Il tutto, in un tragitto di tre quarti d’ora; tanto dura «un viaggio al termine dell’uguaglianza».

In quel dato della differente aspettativa di vita calcolato dall’epidemiologo Giuseppe Costa, curatore del secondo rapporto su L’equità nella salute in Italia, e raccontato per il Venerdì de la Repubblica da Riccardo Saglianò, ci sono tante cose: disparità di reddito, divario di opportunità, diversità di condizioni di vita, alimentazione, accesso alle cure. Lungo quella decina di chilometri, se viene meno la speranza nella giustizia sociale, allora cresce solo l’invidia, l’anima nera del popolo che si fa folla, come quelle raccontate da Giovanni Verga nelle sue Novelle rusticane. 

Penso alla capitale sabauda, e penso a quella adagiata sui sette colli. Ricordo di aver visto tempo fa un servizio del programma I dieci comandamenti, di Raitre e condotto da Domenico Iannacone, dal titolo Arrivederci Roma. Svolta lungo le mille città che sembrano condividere lo stesso spazio nel medesimo tempo, quell’inchiesta raccontava di gente che vive in baracche, e sotto i ponti, e fra stracci, e come può e quando riesce, perché di stenti si muore pure, e poi di chi abita ville e palazzi incommensurabilmente ricchi e preziosi. Colpiva un contrasto nei primi minuti della trasmissione: anonime periferie popolate da giovani senza nemmeno più il coraggio della speranza o da adulti profondamente arrabbiati per l’ingiustizia che avvertono, e la residenza della principessa Odescalchi, bella, splendente, fantastica, con la sua Conversione di San Paolo del Caravaggio a fare belle mostra di sé, cento milioni di euro (no, il valore non è un numero a caso, ma quello per cui è assicurato) incorniciata fra stucchi, drappi, velluti, tessuti damascati, marmi, legni pregiati, ottoni, e gli ori, e i cristalli, e l’argenteria e tutto il necessario per farne una reggia da mille e una notte. Se non è disuguaglianza questa, cos’altro potrebbe esserlo?

Papa Francesco vuole attenta agli ultimi la sua Chiesa perché, dice, «aver cura di chi è povero non è comunismo, è Vangelo». Lui coglie il problema odierno e lo porta nelle parole, ma l’intera nostra società, nel suo non potersi non dire cristiana, in senso crociano, lo sente e lo avverte, come ne avverte l’irriducibile ingiustizia. Per questo, non gli scritti sacri, ma la Costituzione recita: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Perché, altrimenti, sotto la disperazione dell’impossibilità del progresso sociale, dell’inconciliabilità del racconto democratico con la realtà di una differenziazione che va dalle baracche ai palazzi con i quadri milionari e che si esprime in più di quattro anni di vita in più e imparagonabilmente migliore, l’invidia è l’unica erba che può crescere. E, come nei versi dell’Abele e Caino di Baudelaire, nutrire e muovere i sentimenti della rabbia, del rancore, della vendetta: «su, arrampicati al cielo e rovescia Dio, giù, sopra la terra!».

Dopotutto, è così vicino quel cielo; appena a quarantacinque minuti di tram.

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2 risposte a Non accusateli di cavalcare l’invidia sociale, chiedetevi perché ci sia

  1. Fabrizio scrive:

    Trappola per minchioni e per il pubblico ” Specchietto per le allodole”
    In queste ore sentiamo parlare di lusinghe e prospettive interessanti ma un dubbio che mi sta sorgendo e’:
    -Questa austerity e’ tutta colpa della Germania?

    p.s. continua……

  2. Fabrizio scrive:

    L’ austerita’ non e’ colpa della Germania ma e’ colpa dei politici governanti che pur di non far apprendere e conoscere le proprie realta’ nazionali ai loro popoli fanno uso per il proprio consumo “cinico opportunismo Politico/Capitalista” dello scudo tedesco.
    Scudo strutturato in due parti e cioe’: fondo salva stati e riforme strutturali.
    Ogni crisi dei paesi eurozona dal 2009 al 2013 e’ stata gestita con forma e contenuto diverso.
    In Portogallo con piu’ fondo finanziario e meno riforme per ottenere un posto importante in chiave Consiglio Europeo; in Irlanda meno fondo ma piu’ riforme pese come macigni “Jobs Act”volute dai Paesi Nordici ( Inghilterra, Svezia,Danimarca) ; in Spagna piu’ fondo finanziario e meno riforme ;in Grecia solo fondo finanziario; in Italia nessun fondo ma inizio riforme strutturali.

    Tutti questi passaggi, crisi, sono servite per iniziare l’allargamento all’UE a paesi come Macedonia, Montenegro,Islanda, Serbia,Albania e per concludere l’ingresso della Croazia.

    p.s. contimua………..

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