Questo sito non parla mai di dischi, banalmente perché il suo autore non ne capisce assolutamente nulla. Quindi questo post è un’eccezione, più che altro perché eccezionale, nel senso proprio di fuori dall’ordinario, è il lavoro di cui si occupa. Uscito ormai da più di un mese, e da me acquistato quasi subito, il “doppio” di Vinicio Capossela, Canzoni della Cupa, è un’opera strana: un po’ musica, un po’ letteratura, un po’ etnografia, tradizione, leggenda, mito, racconto.
Diciamo che le starebbe stretta anche la definizione di “disco”, perché credo che sia una parte che si inserisce in un discorso più ampio, che comprende un libro e un film, Il, il primo, e Nel, il secondo, paese dei Coppoloni, e che, appunto, concorre alla narrazione di una storia che non s’interrompe passando da un mezzo all’altro. Stando a quello musicale, l’album è diviso in due parti: Polvere, dove c’è la fatica, ché il lavoro è diverso, ma pure l’evasione e la leggerezza di chi deve scacciare il peso del presente, e Ombra, là dove vivono le creature della cupa, del buio, che si fanno vedere ma solo da uno alla volta, così che non ci sia possibile raffronto, magiche, sfuggenti, comunque compagne in quel mondo «dove regna il lupo e l’antico, nero cinghiale, né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello degli animali e degli spiriti, né le fronde degli alberi visibili dalle oscure radici sotterranee», per dirla in termini leviani.
Lungi da me fingermi imparziale; nelle immagini che l’artista calitrano nato ad Hannover – non è questa una rarità, almeno a guardarla dalle parti da cui entrambi veniamo – disegna in tutti e tre gli assi del suo lavoro, riconosco i contorni e i colori di casa (e dio solo sa quante ho pensato a come sarebbe stato il me rimasto, come il “secondo”, Vincenzo, nel testo e nella pellicola). In un certo senso, mi seducono perché mi ci riconosco. Ma non è nostalgia, ché è roba da ricchi, se non intesa in accezione strettamente letterale, quel dolore del ritorno che si proverà comunque, che si rivada o meno ai luoghi noti. Diciamo che è il piacere di discutere in una lingua conosciuta.
Fin quando non arriva il treno, ovvio, come quello cantato nell’ultimo brano, che si prende le genti e svuota i paesi, «senza un avviso, senza cartolina, come una mandria buttati fuori, uomini, cani, sorelle e fiori». E allora si va via, disperdendosi per quei tanti “altrove” che si riuniscono per le strade dei luoghi da cui son partiti gli emigranti, ridisegnando, nei dialoghi del confronto, nei saluti di rito ripetuti negli usuali “quando sei arrivato”, “quando ripartirai”, nelle conversazioni fra un “trentino” di un buon rosso che è quasi nero e qualcosa sotto i denti, e durante le quali può sembrarti di non essertene mai andato.
Ma no, non è nostalgia, che quella, si diceva, è roba da ricchi, non affare di cafoni.
Se qualcosa accade c’e’ sempre un motivo;Niente succede per caso; Tutto ha un senso.
Tre penisieri del “Ogni cosa non nasce per caso”
Arthur Schopenhauer:Quest’umano mondo e’ il regno del caso e dell’errore, i quali senza pieta’ vi imperano, nelle grandi come nelle piccole cose; e accanto a quelli agitano inoltre follia e malvagita’ la sferza.
Cosa e’ accaduto , all’interno del contesto della comunicazione globale , qualche giorno prima della tragedia disumana di “Orlando”?