«Tale vita in comune rivelava ai combattenti sardi, ogni giorno, nozioni straordinarie che per loro erano nuove. Per la prima volta si rendevano conto che la guerra la facevano solo i contadini, i pastori, gli operai, gli artigiani. E gli altri, dov’erano? Il disprezzo per gl’imboscati raggiungeva da noi le vette più alte e, di tanto in tanto, si scopriva che dei plotoni intieri mandavano cartoline d’insulto, con firma e indicazione del reparto, a imboscati celebri di cui circolavano i nomi. Che la guerra la si dovesse fare, non era questione. Ma perché il re l’aveva ordinata? Perché la facciamo? Questa domanda l’ho sentita migliaia di volte. I prigionieri che facevamo, austriaci, ungheresi, cechi, bosniaci, erano anch’essi tutti contadini e operai. Altra scoperta: anche dall’altra parte, la guerra la facevano i contadini e gli operai. E anche loro, perché la facevano?». Emilio Lussu, Il cinghiale del diavolo, sul fronte e la Prima Guerra Mondiale.
Siamo sempre lì: chi pensa alle guerre, può farlo perché sa che non sarà del suo sangue che si colorerà la terra, non avranno i suoi accenti i pianti delle madri, non saranno suoi i figli a morire per una patria che continua a pensarli in minore. Mi sono detto “renzianissimo”, quando ciò sembrava significare stare con chi mai avrebbe voluto impegnarsi in conflitti che chiamano “di pace”; da quel che leggo, pare che anche su questo debba ricredermi sul governo, su chi lo guida e sul partito per cui ho votato. Non che ci credessi davvero, lo confesso, ma è che volevo crederci, per non dover sopportare la vista d’ipocriti visi contriti nell’accogliere bare coi resti di chi loro stessi, sereni, avevano fatto partire da vivi.
E se vi sembra demagogia o retorica, è ché a morire non sarete voi. A dare il sangue per l’intero paese, all’epoca di cui narrava Lussu o in quella più recente, come ci ricordava Saviano, sono sempre i più poveri. È una questione sociale, certo, che è pure una faccenda di geografia. E quando si viene da quelle terre, quando quei cognomi non sono nuovi, quando solite sono le voci segnate dal dolore e noti i posti che si snocciolano nelle anagrafiche delle notizie, allora non si può fingere che la cosa non esista.
Tutta intera è lì, la tragedia del mio popolo, che per quanto non riesca più a dirsi “classe”, s’accorge scontrandosi di condividere la stessa sorte che da sempre è toccata a chi sta sotto per la volontà di quanti siedono nei posti in cui mai arriverà quel conto da pagare. E io sono stanco, e di tutto questo non posso tacere, tantomeno unirmi ai canti di quelli che predicano “della necessità dell’intervento” ritmando il tempo di cupi tamburi marziali.