Ieri sera, cenando con un amico, inevitabilmente il discorso è capitato sugli scenari in vista delle prossime amministrative. E sui metodi di scelta dei candidati che il Pd intenderà seguire, soprattutto dopo aver letto che la tentazione di Renzi sarebbe quella di cassare lo strumento delle primarie. Il mio amico, a differenza mia e con maggiore coerenza di me, è stato dem fin dalle origini. Anzi, direi che, per quel che lo conosco, le sue idee, in un certo modo, sono il senso del Pd delle origini. Io no, e la mia forte impronta ideologica socialista mi tenne lontano dallo schema veltroniano, mi ha respinto da questo renziano e, lo dico con semplicità, mi fa essere scettico rispetto ad alcuni aspetti un po’ troppo liberal alla maniera americana che scorgo nei discorsi di molti di quelli con cui condivido l’attuale avventura politica di Possibile, rimanendo, ovviamente, di più le cose che a loro mi accomunano di quelle da cui discordo.
Però, non è di questo che voglio parlare. Il fatto interessante è che quella discussione, che un tempo avrebbe coinvolto entrambi per interminabili ore, è durata il tempo del digestivo e s’è chiusa prima del “faccio il caffè”, con un suo tombale “facciano come vogliono”. Tre parole per una dichiarazione di disinteresse per le sorti di quella che è stata la comune casa politica e che m’ha stupito, e anche convinto che la frattura che hanno creato con le scelte adottate in questi due anni difficilmente potrà essere ricomposta. No, non credo si tratti di visione politica, ma proprio di quel senso di comunità che esisteva ed era riconoscibile pure da chi se ne allontanava, come ho fatto io diverse volte, e che è stato sacrificato sull’altare del nuovo credo, asfissiante e totalitario: la vittoria per la vittoria.
Non c’entrano affatto nemmeno le primarie che Renzi oggi sarebbe tentato di abolire, non per me almeno. Quello strumento lo ritengo utile in assenza di altri migliori, un po’ come la democrazia in genere, diciamo, ma non gli riconosco più valore politico delle selezioni per un talent show. Non parliamo poi delle esagerazioni che ne vengono fatte, quando addirittura sono usate per far scegliere il segretario di un partito a tutti quelli che si trovassero per caso a passare per i gazebo di una domenica di sole, così, come se scegliessero tra caffè macchiato o cappuccino al bar, o l’ordine con cui inserire in una lista bloccata i candidati al Parlamento; tanto perfetto da aver creato i risultati che abbiamo visto, a partire dall’elezione del presidente della Repubblica nel 2013. Ripeto, è il migliore in mancanza d’altri, e c’è da aggiungere che la colpa non è della lenza o degli ami se nei laghi non si pescano marlin blu: la classe politica non è aliena alla società che la esprime.
Un significativo pezzo di quella comunità che pure sbattendo contro l’inguardabile modo in cui un pavido, e noto, ceto politico che s’atteggiava a classe dirigente cercava di rappresentare, non abbandonava il posto, la parte, in cui sempre si era riconosciuta, oggi dice “fate come vi pare”. Non inizia adesso quella frana, e le biografie degli elettori datisi al voto di protesta o all’astensione sono un catalogo abbastanza illuminante di questa vicenda. Eppure, non so come dire, ora sembra colpire anche quelli che, è l’esempio del mio amico, pur tra mille difficoltà, si erano sempre riconosciuti in quell’ambiente politico, dando il loro apporto e contributo senza mai chiedere o aspettarsi nulla in cambio.
Le schiere di quelli che furono i sostenitori di una visione diversa di società si riempiono di gestori dell’esistente e professionisti dell’accordo, mentre chi credeva che bisognava lavorare perché un pezzo delle proprie convinzioni divenissero buone per la maggioranza, e non arrendersi a prendere per buone quelle già confezionate e somministrate alla maggioranza, non può far altro che fare altro. E disinteressarsi ormai a quella un tempo conosciuta quale sua comunità, così mutata da non esser più riconoscibile.