Non è una gara

Una volta, mi raccontarono le gesta di un prozio materno che, quand’era ragazzino, legò allo stesso carretto un cane e un gatto. Usò una corda più lunga per il gatto e una molto più corta per il cane, di modo che il primo non potesse fuggire, ma difficilmente il secondo l’avrebbe preso.

Sì, lo so, vi pare crudele immaginare i due animali correre all’impazzata, ma all’epoca la sensibilità, come dire, “animalista” non era così diffusa: forse perché c’era ancora e molto da fare per il benessere delle persone, o semplicemente perché quello non era un tema rintracciabile nelle coordinate della cultura a cui quelle donne e quegli uomini appartenevano. Fatto sta che tutti trovarono efficace il curioso modo con cui il giovane aveva reso incredibilmente veloce il suo piccolo e artigianale barroccio.

Spesso mi capita di considerare la competizione prestazionale a cui veniamo spinti, come la sorte di quel cane e quel gatto. L’uno non riuscirà a fuggire, l’altro non potrà acciuffarlo, e rimarranno a correre legati per il solo risultato possibile: far correre più veloce il carrettino di chi allo stesso li ha legati.

Poi però penso anche agli occhi dei tanti vecchi che ho incontrato, a quelli che ricordo fra i vicoli e le strade in cui sono cresciuto, alle loro rughe e a quelle che vedo ancora segnare il volto di alcuni anziani della mia schiatta. Ecco, quelle espressioni sembrano dire, al mondo che parla di performance, risultati, obiettivi: “ma perché, era una gara questa cosa che chiamano vita? A noi pareva che dovessimo viverla, semplicemente e unicamente”.

In modo semplice, senza ricercare per forza l’eccezionalità, l’esagerazione, il limite. E in modo unico, originale, singolare, con quella peculiare capacità di essere fuori dal novero del conformismo che solo conoscono quelli che sono, indipendentemente da quanto abbiamo.

Sarà forse l’aria settembrina di questa mattina, che porta all’autunno una strana estate, ma i tanti impegnati nella ricerca dell’affermazione per la loro speciale individualità attraverso le proprie prestazioni, mi sembrano come corridori presi tutti nella stessa corsa piatta, ed è come se in quella fiumana di podisti, solo un occhio esperto e allenato a riconoscere i numeri sulle pettorine potesse riuscire a distinguere gli uni dagli altri.

E mentre la società affluente scorre, viene voglia di sedersi di lato e cercare di capire perché dovrei correre in quel fiume, nuotando nel verso della corrente o contro di essa, quando potrei semplicemente starmene all’asciutto. Servono davvero tutte quelle cose? Sono realmente indispensabili quei beni? Sul serio non si può fare a meno di quegli averi?

Di più: che senso ha gareggiare in un contesto che nella migliore delle ipotesi è falsato, nella più probabile falso? Quale la ragione di correre in una sfida che non darà nessun trionfo? Perché affannarsi su un percorso che conduce in un luogo che non cambierà mai, anche arrivassimo primi, nulla di ciò che realmente conta nelle nostre esistente individuali?

Questa voce è stata pubblicata in filosofia - articoli, libertà di espressione e contrassegnata con , , , , , , . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento